INTERVISTA A LEONARDO MENDOLICCHIO, PSICHIATRA, UNO DEI MASSIMI ESPERTI IN ITALIA NEL TRATTAMENTO DEI DISTURBI DELLA CONDOTTA ALIMENTARE (DCA)
Il dottor Leonardo Mendolicchio è Direttore dell’unità Operativa di Riabilitazione dei Disturbi alimentari e della Nutrizione presso l’IRCCS Auxologico Piancavallo, in provincia di Verbania.
Nel DSM-5 la definizione di disturbi della condotta alimentare (ex DCA), è recentemente stata modificata in Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (DNA). Le patologie psichiatriche a cui ci si riferisce sono però sempre le stesse, ovvero anoressia, bulimia e binge eating disorder. Ci spieghi il perché si è preferito non parlare più di DCA?
“Il termine “comportamento” era forviante perché i disturbi alimentari non sono determinati solo da scelte comportamentali, bensì da situazioni esterne come traumi o stress, oppure da fattori socio-relazionali o meglio ancora da condizioni emotive profonde. L’aggiunta della parola nutrizione è altrettanto importante perché allarga il concetto di tali patologia anche ad alcune forme di obesità o di malnutrizione su base psicologica.”
I DNA sono aumentati del 30% durante i due anni pandemici, secondo recenti dati ISTAT. È possibile che oltre a stress e isolamento, un elemento fortemente perturbante sia stata la dipendenza dai social media e il confronto costante tra il proprio doppio digitale (foto, video, avatar) e quello dei/delle pari?
“L’isolamento è il grande “fantasma” che ruota dietro i disturbi alimentari. Il rapporto umano per quanto complicato è fonte di piacere e gratificazione, senza di esso si cercano sostituti che possano mimarne l’efficacia. Il cibo è uno di questi sostituti che cercato in eccesso favorisce la bulimia e l’obesità, l’idealizzazione del corpo è un altro sostituto che alimenta il desiderio di magrezza e di controllo dell’anoressia. I social sono una cassa di risonanza potentissima che sostiene il tentativo di sostituire la gratificazione scaturita dal rapporto umano con altri surrogati pericolosi.”
Cos’è il disturbo da dismorfismo corporeo, e perché tanti/e giovani e giovanissimi/e ne soffrono?
“Il rapporto con il nostro corpo non è mai un rapporto semplice o lineare, in alcune condizioni si può entrare in conflitto aperto con alcune parti di esso, con il genere che rappresenta, con aspetti che ne determinano l’appartenenza ad un sesso, oppure con l’intera immagine che può rappresentare il disprezzo che si può provare nei confronti di se stessi. Il corpo nell’anoressia è un feticcio sul quale si proiettano tutte le paure, frustrazioni, inadeguatezze e giudizi. Tale processo è alla base di quelle ossessioni che mirano al corpo nel tentativo di renderlo perfettibile o modificabile.”
All’Auxologico Piancavallo si pratica anche la terapia di gruppo a scopo motivazionale. Funziona? Quali sono gli altri percorsi psicoterapeutici?
“I disturbi alimentari sono disturbi egosintonici e per cui non considerati tali da chi li vive. Tale condizione rende le cure difficili proprio perché i pazienti non si sentono bisognosi di trattamenti o perché addirittura vivono con terrore l’ipotesi di abbandonare il loro disturbo. Lavorare sulla motivazione è fondamentale, farlo in gruppo rende la consapevolezza più diretta e a volte necessariamente spietata.”
In un suo intervento durante la registrazione della docu-serie “Fame d’amore”, dici ad una paziente: “Hai poca fiducia negli altri, e troppa in te stessa”. Cosa significa, in termini di rischi di ricaduta nei DNA? Esiste in loro una consapevolezza di sé altamente tossica?
“In un libro di un collega amico si afferma: “Si fa con il cibo ciò che si fa con gli altri”. Nell’anoressia il rifiuto del cibo equivale al rifiuto dell’altro, del convivio. Spesso tale rifiuto si fonda su una chiara paranoia: l’altro vuole tradirmi, abusarmi, abbandonarmi, giudicarmi. Se non si esce da questo schema l’unica fede possibile è verso se stessi e la propria immagine. Questo circuito masturbatorio è così pericoloso da portare alla morte. Di anoressia, infatti, si muore.”
Lei afferma che l’anoressia è una malattia ad altissimo indice di curabilità. Eppure è anche una delle prime cause di morte tra i giovanissimi/e. Non è un controsenso?
“È il paradosso di un sistema che cura i pazienti non curandoli ma creando contesti dove si usa il classico sistema pseudoterapeutico ovvero l’uso del potere e della segregazione. Isolando i pazienti in comunità ed obbligandoli a normalizzare le loro condotte alimentari non si agisce sul vero nucleo del problema che è quello relativo alla possibilità di riannodare questi ragazzi in un rapporto sociale possibile. Quando le cure mirano a normalizzare il peso senza occuparsi del loro contesto sociorelazionale diventeranno l’ennesimo trauma dal quale proteggersi ulteriormente con il loro sintomo. Questo meccanismo produce l’elevata mortalità di una malattia che ancora subisce una serie di drammatici luoghi comuni. In Italia la scarsità delle cure e l’ignoranza sul senso di tale sofferenza produce molti morti.”
All’Auxologico Piancavallo arrivano giovani da ogni parte d’Italia, cresciuti in contesti socio-economici e familiari estremamente eterogenei. Qual è il fil rouge, se c’è? Ci sono personalità più a rischio, indipendentemente dagli eventuali traumi subiti?
“Il nuovo conformismo borghese che prescinde dalle fasce di reddito che crea una cultura performativa sin dalla nascita produce vite di adolescenti che passano il loro tempo con livelli elevatissimi di ansia da prestazione su molteplici aspetti della vita. Il sentimento di inadeguatezza costante nel quale vivono gli adolescenti, che si annida tanto tra i ricchi e che nelle classi meno abbienti è il substrato emotivo e culturale sul quale emergono i disturbi alimentari.”
Le famiglie delle persone con DNA sono spesso disfunzionali. Non le viene il desiderio, talvolta, di “mettere in cura” tutti i familiari per salvarne uno/a?
“Noi lo facciamo, direttamente o indirettamente la famiglia diventa “oggetto” di intervento, spesso su due versanti: il primo nel limitare le angosce destruenti che paralizzano la funzione affettiva e pedagogica dei genitori, la seconda “castrando” le spinte perfezioniste dei sistemi familiari.”
I DNA sono in crescita tra i giovani maschi. Perché secondo lei?
“ll “corpo della donna” è sempre stato teatro del potere patriarcale della società maschilista la quale fomenta i meccanismi conflittuali di cui abbiamo parlato. Oggi anche il “corpo dell’uomo” è vittima di conflitti di una società che esercita un potere patriarcale anche sul “maschile” che diventa oggetto di conflitto tra un maschile etereo e quello machista. Questo alimenta l’anoressia nei maschi.”
Riconoscere i DNA non è semplice per le persone esterne, eppure i segnali ci sono. Quali comportamenti devono subito mettere in allarme genitori e/o educatori/trici?
“Il nesso tra solitudine e cambio dello stile alimentare è davvero il primo campanello da tenere presente.”
All’Auxologico Piancavallo arrivano spesso ragazzi e ragazze che sono ricaduti/e nei DNA una volta dimessi. Qual è il tasso di recidività, e perché è tanto difficile avere un pieno recupero?
“Abbiamo un 20% di ricadute. Spesso perché il proseguo delle cure sul territorio è assente.”
Si parla tanto di DNA nei teenager e giovanissimi/e. Ma cosa accade se la malattia insorge o precipita in età adulta? Chi aiuta gli e le “over” a uscire da anoressia e bulimia?
“I DNA sono sempre più trasversali e noi dovremmo essere pronti ad includere nelle cure tutti i gruppi di pazienti. In Auxologico lo facciamo. Non sempre è cosi però.”
Sinceramente: chi ha sofferto per anni di DNA può recuperare un rapporto del tutto sano con il cibo tornando ad uno status quo ante? O il rapporto con ciò che nutre resta conflittuale a vita, e occorre imparare a gestirlo per non farsi troppo male?
“Dall’anoressia si guarisce totalmente e senza residui. In questi anni ho potuto apprezzare tantissime storie di ragazze che hanno ripreso un rapporto con il cibo e con il corpo senza conflitti tipici di un DNA.”
Perché ha deciso di occuparsi proprio di DNA?
“Mia madre mi racconta che da piccolo ero un bimbo “pigro” nel mangiare. Lei era costretta ad inventarsi diverse strategie per invogliarmi a mangiare. Da preadolescente poi ho sviluppato quello che oggi si chiamerebbe un disturbo evitante e restrittivo, tipico di quella fascia di età, evitavo cibi che temevo potessero soffocarmi. Nella mia storia il cibo è stato legato alla paura della morte e al bisogno di chiamare l’altro all’appello. Ho vissuto in prima persona questo gioco perverso e credo che questa mia esperienza abbia determinato la mia professione. È l’inconscio che sceglie e l’inconscio è figlio della storia.”
Intervista a cura del Direttore Scientifico Prof. Sergio De Filippis, e della Responsabile Editoriale Dott.ssa Paola Perria.