HIKIKOMORI: L’INTERVISTA COMPLETA ALL’ESPERTO
Abbiamo incontrato il prof. Ignazio Ardizzone, neuropsichiatra infantile al Policlinico Umberto I di Roma e fondatore del progetto “Isole” per il recupero dei giovani hikikomori italiani
Sono pienamente d’accordo sul definire il fenomeno in questione una sindrome psico-sociale, ma descriverlo solo legato al fallimento in ambito scolastico e alle aspettative della famiglia mi sembra molto riduttivo e fortemente legato ad alcune caratteristiche della cultura giapponese dove il fenomeno è stato descritto per la prima volta con questo termine. Per descrivere questi pazienti io preferisco usare il termine ritiro sociale prolungato (condiviso da molti autori) o una mia definizione personale cioè dissociali. Il mio primo paziente con isolamento sociale, abbandono scolastico e dipendenza da internet l’ho incontrato trent’anni fa quando ancora il termine hikikomori in Italia non era comparso. Nel tempo ne ho incontrati altri ed alla triade sintomatologica classica ho dovuto aggiungere molti altri segni che compongono un quadro estremante complesso osservato in pazienti soprattutto maschi (di questo aspetto parleremo più avanti). Se permettete farò une elenco:
- Isolamento/restrizione drastica della vita sociale fino alla claustrofilia;
- Abbandono scolastico o modalità particolari di frequentare la scuola che comunque prefigurano un abbandono
- Dipendenza da internet con uso di alias e uso non relazionale delle proprie passioni o dei propri talenti
- Quoziente intellettivo spesso al di sopra della norma
- Intellettualizzazione, spesso grandi affabulatori
- Senso di superiorità, grandiosità, onnipotenza
- Inversione del ritmo sonno veglia dovuto soprattutto al vivere quando gli altri dormono
- Fobia del corpo sessuato ed estremo disinteresse per il funzionamento del corpo che non viene mai allenato e spesso dimenticato. Scarsa igiene personale
- Cronosfobia e kairosfilia, è presente una fobia cioè del tempo evolutivo. Nessun senso del futuro, del passato, ma anche del presente.
- A volte presenza di difese autistico ossessive
- A volte accumulo
- Passione per culture e società fortemente ritualizzate
- Aggressività intrafamiliare agita o attraverso modalità che comportano la disgregazione del nucleo familiare.
- Passivizzazione e tirannia delle figure genitoriali; spesso disinteresse totale nei confronti di problemi di salute dei genitori che preoccupano solo in quanto alterano lo status quo.
- Passività nel mondo esterno.
- Forte dipendenza dal nucleo familiare ristretto o allargato
- Alimentazione selettiva
- Somatizzazioni
Tutti questi segni, che possono rimandare a vari quadri psicopatologici e a notevoli problemi di diagnosi differenziale, non sempre sono tutti presenti e spesso si manifestano seguendo una traiettoria evolutiva a cui sottintendono variazioni nel rapporto con l’altro. Il segno più importante, però, che sta spesso alla base dell’intrattabilità di questi pazienti è l’assoluta egosintonia dei sintomi. Questi pazienti spesso si stupiscono dei nostri sforzi di curarli non comprendendo assolutamente dove sia il problema e soprattutto come dicono spesso: “Ma a chi do fastidio? Lasciatemi fare la mia vita”. Non vi nascondo che spesso è molto difficile rispondere e che volta per volta bisogna ricordarsi della sofferenza che a volte siamo riusciti a scoprire dietro il vetro dove si nascondono questi pazienti. Pazienti che pongono enormi problemi di cura anche alle equipe più affiatate e agli psicoterapeuti più esperti poiché spesso si può credere di ottenere risultati, fare passi avanti, ma invece niente si sta modificando. L’evoluzione di questi ragazzi sta tra l’essere un animale sociale e vivere gli altri come un inferno per dirla con Sartre. Essi lentamente perdono il fascino della relazione con l’altro e intraprendono una strada verso il non umano. Non credo, quindi, si tratti solo di un problema di fallimento scolastico o di eccessive aspettative, almeno nella nostra cultura. Il mio primo paziente (usciva solo per venire da me) dopo una serie di sedute che evidentemente aveva ritenuto inutili, mi sbatté sul tavolo un vocabolario, appositamente portato, da casa intimandomi di cercare il significato della parola annichilire. Una parola che descrive sensazioni che vanno ben oltre la vergogna e l’umiliazione verso la sottomissione, la passivizzazione la disintegrazione.
E da lì iniziammo a lavorare. Con il tempo credo di aver compreso che questi pazienti precocemente sviluppano una Noosfobia, una paura angosciosa cioè delle intenzioni, dei sentimenti, dei pensieri dell’altro, una evoluzione paranoica della teoria della mente che ha origini precoci e che segnerà il percorso evolutivo del rapporto tra il Sé e l’altro.
La sintomatologia di questo quadro clinico si evolve insieme alla distorsione del rapporto tra il Sé e l’altro. Nella fase che possiamo definire premorbosa (dagli otto anni ai tredici) l’altro è quello che ti fa vergognare, che ti umilia e può arrivare ad annichilirti. Il Sé è vergognoso e invidioso. I sintomi sono ansioso-evitanti: assenze, somatizzazioni, primi segni di chiusura e restrizione della socializzazione, aumento di attività solitarie con aumento dell’uso di video giochi, deflessione dell’umore, presenza di rituali e compulsioni, disinteresse verso il corpo. Dalla fase ansioso evitante si evolve verso una fase schizoide in cui l’altro inizia a non esistere più, ad essere negato: qui bisogna tener conto che l’altro in questa fase non sta solo nell’esterno ma anche dentro il ragazzo e ha le caratteristiche imprevedibili e non controllabili dello sviluppo adolescenziale. Anche questa altra forma di alterità viene negata. Il passaggio dalla fase ansioso- evitante a quella schizoide è spesso caratterizzato dalla comparsa di un periodo di breve di aggressività che è quella poi che spesso porta i genitori a cercare aiuto. Nella fase schizoide il Sé non sente più il fascino della relazione con l’altro ed inizia il percorso verso il non umano. Abbiamo quindi delle finestre sempre più ristrette per agire e dobbiamo cercare di intervenire nel momento di passaggio tra la sintomatologia ansioso evitante e la fase schizoide, quando l’altro esiste ancora.
Come ho detto esporre questi pazienti alle cure è difficilissimo. Distinguiamo due gruppi: i ragazzi completamente isolati e quelli che mantengono un rapporto con l’esterno. Nel primo caso, il “progetto isole”, un progetto operativo creato presso il nostro dipartimento, prevede tra le cinque e le dieci seduta diagnostiche di psicoterapia familiare a casa del paziente con una frequenza settimanale. Al termine di questo intervento si costruisce un progetto che prevede l’utilizzo di psicoterapia individuale e compagno adulto, terapia di gruppo per i pazienti e per i familiari. E’ molto importante che il momento della diagnosi e della costruzione del progetto terapeutico riabilitativo sia condiviso dalla famiglia, dai sanitari e dalla scuola. La Scuola svolge un ruolo fondamentale nel progetto terapeutico-riabilitativo di questi ragazzi e deve mostrare flessibilità e disponibilità. Poi c’è un altro motivo. Gli adulti devono dare a questi ragazzi l’impressione di essere capaci di fidarsi gli uni degli altri, devono essere capaci di lavorare insieme e di essere coerenti e presenti. Questo già di per sé ha un grande valore terapeutico. Per quanto riguarda la terapia farmacologica è sintomatica e deve essere utilizzata all’interno del progetto. Nei casi più gravi si deve prendere in considerazione, un allontanamento dal nucleo familiare che però non può essere, almeno nella mia esperienza, di breve durata.
Si tratta in primo luogo di lavorare sui ritmi idiosincratici di questo tipo di pazienti, ad esempio quello sonno veglia. Il tema è quello di un luogo, dove ricostruire il fascino della relazione con l’altro e combattere la tendenza verso il non umano. L’equipe dovrebbe lavorare per valorizzare capacità e talenti di questi ragazzi dandogli un senso relazionale. Ricostruire la curiosità per l’altro. Credo che dovremmo metterci a tavolino per costruire luoghi adatti a questo tipo di intervento. Luoghi in cui si possa lavorare sulla menomazione sociale, anche quella presente in altri tipi di patologie. Nel corso del tempo, quindi, mi sono reso conto che per alcuni casi particolarmente gravi il ricovero in comunità è necessario. Non sono assolutamente sufficienti, dal mio punto di vista, brevi ricoveri ospedalieri che anzi a volte possono essere controproducenti.
Anni fa, prima della comparsa dell’epidemia di Covid, avevo sottolineato come epidemiologicamente nella psichiatria dell’adolescenza stessimo assistendo alla comparsa di due epidemie ben distinte: quella borderline e quella schizoide. La prima appannaggio del mondo femminile e la seconda di quello maschile. La situazione era grave e ingravescente e già allora chiedevamo a gran voce risorse economiche, logistiche e umane per affrontare quella che iniziava ad essere un’emergenza sanitaria difficilmente gestibile; purtroppo non immaginavamo che il peggio dovesse ancora venire. Avevamo, quindi, un gran numero di ragazzi chiusi in casa e un gran numero di ragazze che riempivano il pronto soccorso sanguinanti e imbottite di farmaci. La divisione di genere appariva lampante, ma il nucleo psicopatologico era lo stesso: vergogna, inadeguatezza, paura, invidia e rabbia. Ragazze e ragazzi in cerca di una follia, per dirla con Winnicott, che tentavano di ribaltare gli stereotipi culturali della passività femminile e dell’attività maschile, avendo come unico bersaglio il proprio sé e la volontà di dimostrare la propria rabbia per la dipendenza dall’Altro crudele, imprevedibile e incontrollabile. Attualmente però assistiamo a un lento, ma progressivo confondersi dei due gruppi dal punto di vista del genere sessuale con un aumento di ragazze con ritiro sociale prolungato e ragazzi con sintomi borderline. Dietro tutto questo forse c’è anche la fluidità di genere che caratterizza attualmente la ricerca identitaria soprattutto dei nostri preadolescenti e la precocità degli esordi psicopatologici. Di certo dobbiamo fare uno sforzo enorme di adeguare le nostre classificazioni, la nostra clinica, la nostra ideologia a cambiamenti sociali e identitari enormi.
No, non è la mia esperienza. Questi pazienti possono fare gesti autolesionistici solo nel momento in cui, ad esempio, genitori disperati invadono il loro spazio, staccano i fili del computer, interrompono rituali, compulsioni. E poi come abbiamo già detto se non esiste tempo, angoscia del presente e del futuro, se non esiste l’altro, se non esiste profondità, se non si soffre per gli altri compresi i propri genitori e si vive nel non umano l’idea del suicidio non viene neanche considerata.
Anche questo non corrisponde alla mia esperienza, solo in pochissimi casi c’è stata una evoluzione positiva in un senso che potremmo definire creativo, caratterizzato a volte anche da successo economico. Pensare che questa condizione possa essere positiva, come affermano anche alcune associazioni, è pericoloso. Certo i pazienti spesso ci parlano addirittura di libero arbitrio, ma il problema sta proprio qui perché, come rispondo loro, è proprio la loro patologia (perché purtroppo di patologia si tratta) che non li rende liberi, che mina la loro creatività e piano piano li rende non umani. A volte abbiamo la sensazione di una estrema crudeltà. Un mio paziente di fronte alla diagnosi di tumore della madre, mostrò solo una grande preoccupazione che questo potesse comportare una variazione nella sua routine giornaliera e che le spese per le cure potessero ridurre i soldi necessari per pagare le bollette della luce e quindi mettere in pericolo l’uso del computer e della televisione.
Come possiamo vedere il tema è complesso dal punto di vista diagnostico, terapeutico e riabilitativo. Questi pazienti pongono problemi enormi anche allo psicoterapeuta che si trova a seguirli. Ci troviamo di fronte a pazienti che utilizzano la bidimensionalità come tecnica difensiva e la difendono da qualsiasi tentativo di creare spazio, profondità, insight, conoscenza. Anche noi siamo vittime della noosfobia del nostro paziente e delle sue tecniche difensive. Spesso questi ragazzi vengono in psicoterapia solo per dare qualcosa in pasto ai genitori e mantenere lo status quo. Con questa riflessione comprendiamo il terzo inferno di questi pazienti: dopo l’Altro, dopo il Tempo, la Profondità, il terrore di qualcosa di incontrollabile dentro di noi, qualcosa di inconsapevole. Il mio primo paziente segnalò un miglioramento iniziando a portare cose accumulate nella sua stanza in cantina creando un luogo diverso dove tenere pezzi di passato non solo suo, ma anche dei nonni (ad esempio, alcune loro medicine). Stava concretizzando un processo di rimozione con la creazione di una cantina/inconscio.
Arturo, sempre lui, mi insegnò anche un’altra cosa e con questo vorrei concludere, che questi nostri pazienti non possono sentire che il loro terapeuta, così come loro, si sente sicuro, tranquillo e protetto nel suo studio colludendo in questo con la loro condizione. Le nuove condizioni patologiche psicosociali devono essere affrontate da terapeuti con un piede appunto nella psiche e un piede nella società. Ho sempre sentito il bisogno nell’affrontare questi casi di confrontarmi con le opere di sociologi, filosofi, scrittori e poeti accanto ad autori psicoanalitici come Fairbairn, Balint, Winnicott, oltre a teorie come quella della mente e della formazione della funzione autobiografica.
Un filone particolarmente utile a mio parere per la comprensione delle sindromi psicosociali ad esempio, è quello del Riconoscimento in cui si incrociano Hegel, Axel Honnet, Paul Ricoeur, Sartre, fino a un libro molto interessante che ben rappresenta il valore euristico dell’integrazione tra varie aree di ricerca e riflessione, con la cui indicazione concludo questa intervista ringraziandovi, si tratta del libro di Jessica Benjamin “il riconoscimento reciproco”.