DAD: LA VOCE DELL’ESPERTO
INTERVISTA AL PROF. MAURO FERRARA
Neuropsichiatra infantile e docente presso l’Università La Sapienza di Roma
Paure, stress, frustrazione, ansia, disagio, apatia, irritabilità… quante sono le parole che possono descrivere le emozioni e gli stati d’animo con cui millennials e generazione Z hanno affrontato e continuano ad affrontare due anni di pandemia e di didattica a distanza? Vogliamo capire cosa rischiano, in termini di salute mentale, milioni di bimbi e ragazzi italiani alle prese con questa enorme valanga che ha travolto le loro vite, e come possano trasmutare in oro un’esperienza che ha già prodotto una netta linea di demarcazione tra un prima 2020, e un dopo tutto da costruire. Abbiamo per questo coinvolto il professor Mauro Ferrara, neuropsichiatra infantile e docente presso l’Università La Sapienza di Roma, che non nasconde la sua preoccupazione per il futuro.
La socialità virtuale è iniziata e andava in crescendo ben prima del fatidico marzo 2020. Certo, con la pandemia, con la chiusura e le riaperture parziali, le interruzioni e le ripartenze, con l’invito paradossale del mondo adulto a sedersi per ore davanti a uno schermo – abitudine che prima stigmatizzavamo, e abbiamo già ripreso a stigmatizzare – tutto questo è cresciuto a dismisura. Ma sarebbe sbagliato considerare il gruppo virtuale solo come un problema, anche se certamente non è neanche una soluzione. Per tanti adolescenti gli amici virtuali valgono gli amici “reali”, non fanno differenza. Come adulti (educatori?) abbiamo poco da ottenere con la sorveglianza, salvo con i più piccoli (ma qui il discorso è diverso, e riguarda la tutela dei bambini). Gli adolescenti ci tengono fuori dalle loro camere dei segreti: più che sorvegliare, dobbiamo provare a parlarne, a far entrare nel discorso quotidiano anche quello che succede su internet, come qualcosa di condivisibile almeno nelle modalità, se non nei contenuti: del resto, quanti genitori, a loro volta, passano ore e ore sulla rete?
La chiusura della scuola ha sottratto agli adolescenti il corpo a corpo con l’unica istituzione che incontrano in questa fase della loro vita. Per tanti ragazzi e ragazze la scuola, soprattutto il liceo, è un tormento comunque – l’ansia prestazionale era diffusamente aumentata, anche molto prima del 2020, così come la percezione che non ci sia nessun rapporto tra aumentare le proprie conoscenze, al di là del voto, e sperare in un futuro migliore; la scuola è tuttavia un limite, un binario lungo il quale ti devi muovere, magari scalciando o più spesso lasciandoti tirare per i capelli, a peso morto; un ruolo e un’appartenenza può darli ancora. La chiusura, con la DAD e tutto il resto, ha funzionato come moltiplicatore di disuguaglianza: è stato detto per le disuguaglianze economiche – con meno spazio e meno risorse tecnologiche si resiste di meno; ma vale anche per la capacità di adattarsi, di non lasciare campo aperto alle vulnerabilità potenziali che sono la norma in adolescenza, e vengono stanate dai fattori ambientali stressanti, così pervasivi durante la pandemia. Tutti noi che lavoriamo con adolescenti con un disagio o con un disturbo mentale franco abbiamo sentito che molti di quelli arrivati negli ambulatori e sempre più spesso nei pronto soccorso, dalla seconda metà del 2020 in poi, non avrebbero mai varcato la soglia sintomatica in un contesto normale. Avrebbero navigato col loro malessere sottotraccia, presto o tardi risospinti verso una vita adulta non sofferente da una storia sentimentale, dall’incontro con un amico o un adulto significativo, magari anche da un film, perfino da un libro. Invece nella zona grigia dei vulnerabili sono fiorite le patologie, espresse attraverso il corpo (autolesionismo e disturbi della condotta alimentare, spesso associati) oppure attraverso la sottrazione di sé e il ritiro dal mondo. L’aspetto più allarmante in prospettiva è che molti hanno preso in considerazione la possibilità di morire come via d’uscita da uno stato di malessere irrequieto e vuoto, minacciando o mettendo in atto i tentativi di suicidio che da mesi affollano i dipartimenti di emergenza e i reparti di NPI. Spesso, per fortuna, con un basso rischio di letalità: non abbiamo evidenze di un incremento significativo di suicidi portati a termine. Ma non possiamo sapere quanto e come questo lungo indugiare su pensieri di morte inciderà sulle vulnerabilità future, da adulti.
L’altra disuguaglianza esaltata durante la pandemia, di cui si parla troppo poco, riguarda il genere: il malessere che diventa sintomo e arriva in ospedale tocca in larga maggioranza le ragazze, in un rapporto di 4 a 1, almeno. Perché? Risposte semplici non ne trovo. Abbiamo le premesse: da sempre sappiamo che i tentativi di suicidio prevalgono nel sesso femminile, come pure i disturbi che chiamiamo “internalizzanti”, e forse le emergenze durante la pandemia “pescano” di più da questo gruppo a rischio. Ci sono altri fattori in gioco? Ci sfugge un sommerso di ragazzi sofferenti che non arrivano neanche a chiedere aiuto? C’entra qualcosa la condizione femminile, la maggiore sensibilità delle ragazze al giudizio e alla critica? E’ più frequente che si senta “inadatta” o “incongrua” (anche rispetto all’orientamento sessuale e affettivo) una sedicenne piuttosto che un sedicenne? Nel 2022, in occidente? E che ne pensano le colleghe, e le donne in generale?
Abbiamo parlato di una zona grigia, di adolescenti che in tempi “non COVID” non avrebbero dato segni evidenti di malessere serio e invece lo stanno facendo. Ma sono comunque una minoranza: la maggioranza degli adolescenti ha risorse sufficienti per resistere, adattarsi, anche apprendere da un’esperienza come quella che hanno vissuto. Molti insegnanti – altra categoria malmenata dalla pandemia – lo sanno, si sono dannati l’anima, dovranno continuare a farlo, sono troppo importanti. Spetta alla scuola, ancora oggi, un ruolo insostituibile, purché sostenuta. Gli insegnanti dovranno fare uno sforzo per trovare più momenti di attenzione per il singolo (possiamo chiederglielo, con quegli stipendi?), non avendo paura di farsi vedere dagli altri. E’ fondamentale che, se ci saranno investimenti per la scuola, la priorità sia ridurre il numero di studenti per classe. Affiancare figure professionali di aiuto all’interno della scuola è importante, permettere agli insegnanti di conoscere e farsi riconoscere da un maggior numero di studenti lo è di più.
Gli studenti meno vulnerabili recupereranno, vanno coinvolti nell’aiutare i compagni che sono rimasti indietro. E’ un’occasione per stimolare i comportamenti prosociali che gli adolescenti avrebbero a disposizione: non è stata purtroppo colta dalle istituzioni nel periodo più nero della pandemia, ma c’è ancora tempo per farlo. C’è stata anche una prima fase in cui molti insegnanti sono stati presi dall’ansia di recuperare quanto sentivano di non aver trasmesso con la DAD: tanti ragazzi hanno avuto l’impressione di trovarsi davanti a una montagna di valutazioni da scalare, al rientro. Questa fase sta fortunatamente scemando, si può riprendere il passo normale dell’insegnamento, con un occhio ai più deboli. Resta un interrogativo aperto rispetto alle possibili conseguenze cognitive-a bassa intensità, ma durature-che potrebbero interessare i ragazzi che si sono infettati: una possibile conseguenza del COVID, di cui sappiamo ancora troppo poco.
Il detto vale poco per gli adolescenti, ognuno di loro è un’entità unica. Ma è vero che questa generazione è la prima da tanto tempo che avrà, da grande, un’esperienza epocale e globale nella propria biografia intima e identitaria. Quelle che l’hanno preceduta non hanno avuto guerre, per fortuna, da raccontare; né grandi passioni politiche e civili- il ’68 è, appunto, lontano più di mezzo secolo. Non voglio certo celebrare la pandemia come esperienza formativa, con tutti i morti e la sofferenza che c’è stata e c’è: ma non credo a una generazione segnata in negativo dall’epoca della pandemia. Gli adolescenti sono l’avanguardia adattiva della nostra specie, lo sono dal punto di vista evoluzionistico. Noi adulti dobbiamo concentrarci ora su questa minoranza- purtroppo molto significativa- che sta indugiando sul farsi male o sul farsi da parte come soluzione. Oppure sull’assumere una diagnosi di “disturbo mentale” come appartenenza a un gruppo deviante, ma in cui ci si può riconoscere: una sorta di cosplay psichiatrico. Vediamo sempre più adolescenti che sembrano interpretare il borderline, o l’autolesionista, ma lo fanno così bene da farsi male sul serio. Su questi ragazzi e ragazze dobbiamo intervenire mettendo in discussione il nostro armamentario tradizionale (il farmaco, la psicoterapia individuale). Anche dando fiducia e coinvolgendo gli altri, la maggioranza che ce la fa e può riacchiappare gli strani, i “depressi”, i rinchiusi. Sempre più spesso mi chiedo se non debba ascoltare nelle valutazioni più i compagni di classe o i pochi amici, piuttosto che insistere con genitori a loro volta stralunati, impotenti.