EFFETTO DAD SUL BENESSERE MENTALE DI MINORI, FAMIGLIE E DOCENTI
Disagio psicologico, stress, alienazione, perdita della privacy sono le conseguenze di 2 anni di DAD su insegnanti, studenti e genitori. Facciamo il punto con protagonisti ed esperti.
La DAD, acronimo di didattica a distanza, è entrata come un ciclone nelle vite delle famiglie italiane e di tutti i professionisti della scuola – in particolare presidi e docenti – rivoluzionandola. Nei tempi, nelle dinamiche relazionali, nella comunicazione, nella privacy. Nell’eccezionale sforzo di adattamento che la pandemia e le continue misure di contenimento del contagio hanno richiesto ai singoli – in Italia in particolare, duramente colpita dall’infezione nelle prime fasi della diffusione del virus in Europa – l’impatto con la DAD va considerato nella sua specificità di elemento perturbante.
Tre sono i punti di vista da cui proveremo ad osservarla, che sono complementari tra loro, e che ci offrono la possibilità di comprenderne le principali conseguenze nel breve e nel lungo termine (ma anche, come vedremo, le potenzialità):
Consideriamo pertanto i dispositivi digitali necessari per la realizzazione pratica delle lezioni a distanza come il perno fisico intorno a cui far ruotare tutti i protagonisti coinvolti nella DAD, un perno che a sua volta si è rivelato parte del problema. Abbiamo una data di inizio, che rappresenta il punto zero della didattica a distanza: il 4 marzo del 2020, quando viene firmato e reso immediatamente attuativo il DPCM che sospende l’attività scolastica negli istituti di ogni ordine e grado in tutte le regioni d’Italia. Da quel momento in avanti, presidi e dirigenti scolastici, invitati a promuovere la continuità didattica usando gli strumenti digitali e la connettività on-line, dovranno gestire una inedita e inimmaginabile sfida che coinvolge tutto il Paese. I problemi emergono subito.
LA DAD FA EMERGERE IN MODO DRAMMATICO IL PROFONDO DIVARIO TECNOLOGICO, SOCIO-ECONOMICO E AMBIENTALE DELLE FAMIGLIE ITALIANE
Problemi di tipo tecnico: divario digitale e connettività ridotta o a singhiozzo in troppe zone del Paese. A tal riguardo, fa specie scoprire che ben 3 milioni, tra bambini e adolescenti, non abbiano potuto usufruire correttamente della DAD perché privi di dispositivi digitali adeguati o di accesso alla rete continuativo1.
Problemi di tipo economico e/o sociale: non tutte le famiglie sono allo stesso modo in grado di fornire ai figli i device digitali più adatti a supportare la DAD. Molti genitori si trovano in condizioni svantaggiate: sono single (soprattutto mamme a scarso reddito2), extracomunitari, svolgono lavori per cui devono assentarsi da casa tutto il giorno, hanno un basso grado di scolarizzazione, o non possiedono le competenze informatiche minime per aiutare i loro figli.
Problemi di tipo ambientale/organizzativo: con lo smartworking che si impone per tante categorie professionali, le case, specie se piccole, diventano luoghi infernali in cui trovare spazi fisici e mentali in cui lavorare, studiare, seguire le lezioni e sostenere interrogazioni diventa ogni giorno una mission impossibile. Il divario economico, tecnologico e ambientale che DAD e smartworking fanno emergere, diventano a loro volta fonte di disagio profondo nelle vite di bambini, ragazzi e adulti, andando, spesso, ad incistarsi in situazioni di pregressa sofferenza, con un effetto deflagrante. Sono i cosiddetti soggetti “fragili”, che rischiano più degli altri di restare schiacciati dagli ingranaggi di un meccanismo più grande di loro. Ma nessuno può dirsi al riparo dagli affetti – ancora non del tutto prefigurabili – che due anni di DAD e di DDI (didattica digitale integrata) producono e produrranno su un’intera generazione di giovani, e sugli adulti con cui si relazionano.
DISORIENTATI, VULNERABILI, STRESSATI: DOCENTI E ALUNNI IN DAD, DUE FACCE DELLA STESSA MEDAGLIA
I primi studi post lockdown disegnano un quadro preoccupante. Oltre al prevedibile aumento nell’uso di sostanze stupefacenti e alcool3 come strumenti per “lenire” il disagio legato al confinamento e alla sospensione dalle attività usuali (sport, hobby) e dalla perdita di contatto con i coetanei, ci sono altri segnali che ci parlano di ferite non facili da sanare. Ansia generalizzata, disturbi del sonno, rifugio nella realtà virtuale, irritabilità o apatia, dipendenza da internet e dai videogames sono altrettanti sintomi e modalità tossiche di coping comuni tra i giovani e le giovani italiane. A loro volta, docenti e genitori si sono scontrati con le loro fragilità e con il timore di non riuscire a far fronte alle nuove responsabilità.
LA VOCE DELLA SCUOLA
Le voci che raccontano sono stanche, di una stanchezza che chiede di essere riconosciuta, e ascoltata. Perché la DAD può essere una grande risorsa, e – post Covid – arricchire l’esperienza didattica tradizionale offrendo strumenti innovativi per migliorare l’offerta formativa e rinforzare il rapporto tra docenti e alunni, a patto di andare tutti alla stessa velocità.
“Mi sono sentita disorientata, e allo stesso tempo invasa. Avevo perso il contatto con la classe, e il confronto con i colleghi e le colleghe. Fare un collegio docenti al pc non consente una comunicazione completa, e davvero efficace, senza il linguaggio non verbale, fatto di sguardi, di gesti, diventa una mera operazione burocratica. Inseguire gli alunni in video call, via e-mail, via chat, ha comportato un’invasione costante della mia privacy e una dilatazione abnorme dei tempi di lavoro, senza la possibilità di staccare. E i ragazzi, loro sono demotivati, apatici, stanchi. Eppure noi ci siamo stati sempre, fin da subito, con tanta abnegazione, nonostante ci sia stato richiesto un avanzamento di 20 anni in un minuto, senza avere strumenti adeguati a questo improvviso aggiornamento”.
Racconta M. T. docente di inglese in un istituto superiore della Sardegna, a sua volta madre di un ragazzo in DAD, studente di liceo classico. E proprio in qualità di genitore, ha potuto osservare un fenomeno che ha accomunato suo figlio ai suoi alunni:
“G., soprattutto nei primi tempi del lockdown, dormiva pochissimo. Con gli amici si davano appuntamento per lunghissime gare di videogames a distanza, che lo sfinivano ma che rappresentavano un diversivo, e allo stesso tempo un modo per mantenere un contatto con i coetanei. Poi si è dato una regolata, e una cosa che ho osservato, è che quando si sono allentate un pochino le misure restrittive, mio figlio e altri della sua età hanno cominciato a vedersi ricreando le classi, anche se, di fatto, non erano alunni della stessa classe, e neppure della stessa scuola. Io ho sempre vigilato per proteggere il suo diritto alla socialità, anche a costo di sacrificarmi per accompagnarlo a fare sport e riportarlo a casa e assicurarmi che fosse in contesti protetti. Tanti dei miei alunni – soprattutto quelli più fragili, senza supporto familiare alle spalle – si sono ritrovati senza nulla. Già studiavano poco prima, con la DAD li abbiamo visto perdersi del tutto”.
S.T., docente di scuola primaria in Emilia Romagna, ha parole di elogio per i suoi piccoli alunni:
“Ho insegnato a leggere a bambini di prima con la didattica a distanza, e loro sono stati bravissimi! Ma ora, a due anni di distanza, anche loro mostrano segni di stanchezza, sono irritabili, deconcentrati. Allo stesso tempo sono più maturi, riflessivi, documentati, sanno tutto sulle misure di prevenzione del Covid e le seguono senza protestare. Noi insegnanti siamo allo stremo, siamo tutti a rischio burn out, anche perché la DDI (didattica digitale integrata) rallenta terribilmente l’attività in classe e la conseguenza è che è impossibile seguire il programma ministeriale e stare nei tempi. Anche questo è causa di forte stress”.
“I presidi fanno quel che possono”, afferma la professoressa Maria Grazia Attanasi, sconsolata. Ma fare quel che si può potrebbe non bastare, quando la posta in gioco non è certo solo la necessità di svolgere i programmi ministeriali costi quel che costi (o almeno, tentare di farlo), quanto proteggere il benessere mentale del corpo docente e delle loro classi.
La professoressa Maria Grazia Attanasi, Dirigente scolastico presso il Liceo Scientifico e Linguistico G.C. Vanini di Casarano (Lecce), nel raccontare la sua esperienza, ha un’idea molto chiara sul peso che la digitalizzazione ha imposto alla scuola, accorciando le distanze e riducendo gli spazi di tregua per il personale docente, ma offrendo anche un formidabile banco di prova da sfruttare in prospettiva:
“Preside, da un giorno all’altro abbiamo dovuto cambiare lavoro”, questo mi ha detto giorni fa una mia bravissima insegnante e ho letto nei suoi occhi, l’unica parte scoperta dal filtro imposto dalla mascherina, tante cose. (…) Questo cambiamento, sebbene in consuntivo, estremamente positivo, ha fatto o sta facendo pagare un prezzo molto alto, quello delle malattie professionali correlate all’alta usura psico-fisica e patologie che ne derivano. (…). A consuntivo, possiamo dire che l’esperienza lavorativa della scuola a distanza può essere vista come un processo trasformativo che ha investito la pratica professionale di tutte le componenti della scuola ed in particolare di coloro che la fanno in prima persona: gli insegnanti. Lo stravolgimento delle condizioni strutturali del fare scuola, l’esperienza di insegnamento a distanza ha attivato un processo di apprendimento e sviluppo professionale le cui ripercussioni sono andate ben oltre l’acquisizione di tecniche didattiche digitali e lo sviluppo professionale ha agito all’interno di una specie di modello ecologico, un movimento di autonomia verso nuove forme di relazionalità e di collaborazione con colleghi, studenti e genitori. La sfida inedita posta dalla DAD ha sollecitato un confronto maggiore tra tutte le componenti della scuola e tra di esse e i portatori di interesse, studenti e genitori, una collaborazione mai sperimentata prima, ma anche una “cura” reciproca, nel cercare di superare insieme fatiche e incertezze”.
LA VOCE DEI GENITORI
Se nel mondo della scuola da remoto, insegnanti e alunni sono due (inter)facce della stessa medaglia, a fare da scomodo cuscinetto sono state – e non poteva essere altrimenti – le famiglie.
Il professor Sergio De Filippis – psichiatra delle dipendenze – ha intervistato il giornalista RAI Duilio Giammaria affrontando la questione DAD dal un punto di vista “interno”, e assai privilegiato, di chi ha vissuto il lockdown essendo stato tra i primi ad occuparsi dell’affaire Covid-19.
Ma anche chi, potendo contare su vaste risorse mentali, economiche e organizzative, si è trovato a gestire i due anni di pandemia con più strumenti di altri, da “semplice” genitore ha dovuto fronteggiare giorno dopo giorno una situazione esplosiva. Scopriamo come.
LA VOCE DELL’ESPERTO
Paure, stress, frustrazione, ansia, disagio, apatia, irritabilità… quante sono le parole che possono descrivere le emozioni e gli stati d’animo con cui millennials e generazione Z hanno affrontato e continuano ad affrontare due anni di pandemia e di didattica a distanza?
Vogliamo capire cosa rischiano, in termini di salute mentale, milioni di bimbi e ragazzi italiani alle prese con questa enorme valanga che ha travolto le loro vite, e come possano trasmutare in oro un’esperienza che ha già prodotto una netta linea di demarcazione tra un prima 2020, e un dopo tutto da costruire. Abbiamo per questo coinvolto il professor Mauro Ferrara, neuropsichiatra infantile e docente presso l’Università La Sapienza di Roma, che non nasconde la sua preoccupazione per il futuro:
La chiusura, con la DAD e tutto il resto, ha funzionato come moltiplicatore di disuguaglianza: è stato detto per le disuguaglianze economiche – con meno spazio e meno risorse tecnologiche si resiste di meno; ma vale anche per la capacità di adattarsi, di non lasciare campo aperto alle vulnerabilità potenziali che sono la norma in adolescenza, e vengono stanate dai fattori ambientali stressanti, così pervasivi durante la pandemia. Tutti noi che lavoriamo con adolescenti con un disagio o con un disturbo mentale franco abbiamo sentito che molti di quelli arrivati negli ambulatori e sempre più spesso nei pronto soccorso, dalla seconda metà del 2020 in poi, non avrebbero mai varcato la soglia sintomatica in un contesto normale. Avrebbero navigato col loro malessere sottotraccia, presto o tardi risospinti verso una vita adulta non sofferente da una storia sentimentale, dall’incontro con un amico o un adulto significativo, magari anche da un film, perfino da un libro. Invece nella zona grigia dei vulnerabili sono fiorite le patologie, espresse attraverso il corpo (autolesionismo e disturbi della condotta alimentare, spesso associati) oppure attraverso la sottrazione di sé e il ritiro dal mondo. L’aspetto più allarmante in prospettiva è che molti hanno preso in considerazione la possibilità di morire come via d’uscita da uno stato di malessere irrequieto e vuoto, minacciando o mettendo in atto i tentativi di suicidio che da mesi affollano i dipartimenti di emergenza e i reparti di NPI. Spesso, per fortuna, con un basso rischio di letalità: non abbiamo evidenze di un incremento significativo di suicidi portati a termine. Ma non possiamo sapere quanto e come questo lungo indugiare su pensieri di morte inciderà sulle vulnerabilità future, da adulti.
TIRANDO LE SOMME
Non tutto è perduto, naturalmente, e per fortuna. Al contrario, ci sono, come trapela anche dalle riflessioni dei protagonisti le cui voci abbiamo isolato dal mormorio generale, sviluppi potenzialmente positivi anche da un’esperienza senza dubbio sfidante e traumatica quale è stata quella della scuola a distanza. La preside Attanasi, ad esempio, nella sua bellissima intervista sottolinea il portato storico della pandemia e delle sue conseguenze sul mondo della scuola:
“Se provo a guardare indietro nel tempo, nel passato non troppo lontano, vedo un momento della storia dell’umanità straordinario, unico, si spera. E noi ne abbiamo fatto parte. Il nostro operato, come donne e uomini di scuola ha contribuito a tutelare il diritto costituzionalmente garantito all’istruzione per migliaia di studenti diversamente inaccessibile se non ci fosse stata la DAD, l’utilizzo della tecnologia e la straordinaria resilienza del personale della scuola”.
Certo, con le dovute differenze:
“(…) In termini generali, un buon docente è rimasto tale anche in DAD, come un docente scarso non è certo migliorato per aver trascorso molto più tempo in touch con la classe”.
I bambini e le bambine che hanno iniziato la scuola in DAD e che a malapena ricordano un prima (della mascherina, del distanziamento, dell’isolamento, dell’igiene compulsiva), hanno tutto da costruire. La mancanza di memoria li protegge. Ma è alla generazione in mezzo, quella che sta tra l’età adolescenziale e quella giovanile, che dobbiamo guardare con più attenzione, perché sono loro che ci diranno, nei mesi e negli anni a venire, che significato storico e sociale e avrà avuto un biennio quale quello appena trascorso.
Ed è pertanto il professor Ferrara che ci offre la chiosa migliore, perché, alla fine, saranno loro, gli e le adolescenti, a dover affrontare il carico maggiore di conseguenze che due anni di pandemia e di DAD ci lasciano:
“Gli adolescenti sono l’avanguardia adattiva della nostra specie, lo sono dal punto di vista evoluzionistico. Noi adulti dobbiamo concentrarci ora su questa minoranza – purtroppo molto significativa – che sta indugiando sul farsi male o sul farsi da parte come soluzione. Oppure sull’assumere una diagnosi di “disturbo mentale” come appartenenza a un gruppo deviante, ma in cui ci si può riconoscere: una sorta di cosplay psichiatrico. Vediamo sempre più adolescenti che sembrano interpretare il borderline, o l’autolesionista, ma lo fanno così bene da farsi male sul serio. Su questi ragazzi e ragazze dobbiamo intervenire mettendo in discussione i nostro armamentario tradizionale (il farmaco, la psicoterapia individuale). Anche dando fiducia e coinvolgendo gli altri, la maggioranza che ce la fa e può riacchiappare gli strani, i “depressi”, i rinchiusi. (…) Sempre più spesso mi chiedo se non debba ascoltare nelle valutazioni più i compagni di classe o i pochi amici, piuttosto che insistere con genitori a loro volta stralunati, impotenti. Gli studenti meno vulnerabili recupereranno, vanno coinvolti nell’aiutare i compagni che sono rimasti indietro. È un’occasione per stimolare i comportamenti prosociali che gli adolescenti avrebbero a disposizione: non è stata purtroppo colta dalle istituzioni nel periodo più nero della pandemia, ma c’è ancora tempo per farlo”.
Fonti: