GENERAZIONE Z E QUIET QUITTING: SE IL LAVORO NON È PIÙ AL CENTRO DELLA VITA
Cosa spinge giovani lavoratori e lavoratrici di ogni settore, a rifiutare contratti economicamente vantaggiosi e ruoli professionali di prestigio che le generazioni precedenti avrebbero accettato senza batter ciglio? Ce ne parla la giornalista scientifica Beatrice Curci affrontando il fenomeno del Quiet Quitting dal punto di vista della Generazione Z.
In questo articolo parliamo di:
QUIET QUITTING: MAI PIÙ SCHIAVI DEL LAVORO
Un nuovo fenomeno sociale investe la Generazione Z: è il Quiet Quitting. Una vera e propria controtendenza da quello che per molto tempo è stato il mito di matrice statunitense della hustle culture: lavorare senza sosta per poter ambire ad avere sempre di più e dove il lavoro diventa la parte preponderante della propria vita. La tendenza dei giovani del post-pandemia sembra ormai essere quella invece di orientarsi verso un impegno non smodato nei confronti del proprio lavoro, arrivando a portare a termine il giusto indispensabile delle proprie attività. Stop alla reperibilità H24, alla reattività nelle situazioni che richiedono urgenza e, purtroppo, anche alla dedizione. Nel mondo del lavoro il Quiet Quitting, neologismo che è nato e si è diffuso sul social Tik Tok per definire “l’abbandono silenzioso”, di fatto sostituisce il tanto decantato stakanovismo di vecchia data. Collaborator* e dipendent*, in questa fascia d’età, sono disposti a svolgere solo lo stretto indispensabile compatibilmente con le ore definite da contratto, rifiutando di fare straordinari, aderire a progetti extra, senza assumersi ulteriori responsabilità che vadano oltre l’essenzialità delle mansioni e senza coinvolgimento emotivo. Non si tratta, tuttavia, solo di una questione di quantità: si vogliono dedicare meno ore al lavoro soprattutto per abbassare l’intensità del proprio sforzo. Si stabiliscono dei confini: il lavoro ha un inizio e una fine. Non si fanno eccezioni. Scelta che probabilmente svela e attesta il bisogno di vivere il lavoro con meno ansia da performance e frutto anche di un’ambizione ridotta, ma soprattutto per dare maggiore spazio a vita privata e tempo libero. Il Quiet Quitting come una sorta di abbandono necessario, motivazionale, dove il lavoro non rappresenta più quella parte di vita predominante con cui identificarsi.
PANDEMIA, SMART WORKING INFINITO, BURN OUT: LE PAROLE CHE SPIEGANO IL QUIET QUITTING
Il diffondersi del fenomeno viene interpretato da espert* e sociolog* come risposta al burnout diffuso che si è registrato sull’onda della pandemia, con uno stress crescente e lo smart working che, per molti, ha significato non spegnere mai il computer e andare in corto circuito per il troppo lavoro. Un evento che, tuttavia, non investe solo alcuni comparti, ma è trasversale a tutte le professioni, siano esse particolarmente faticose o di prestigio. Oggi nemmeno un alto guadagno sembra essere in grado di fare la differenza rispetto alla quantità di impegno che un giovane mette nella professione, perché preferisce destinare altrove forze ed energie residue. Dal punto di vista dei cambiamenti in corso nella società contemporanea, il Quiet Quitting, sembra dunque rientrare in quelle modalità comportamentali in cui si ravvisa il desiderio di dare un valore diverso al tempo e alla qualità delle esperienze e la necessità di dedicarsi maggiormente a sé stess*, ai propri bisogni, ai propri legami. Il lavoro non è più la priorità assoluta nella costruzione del proprio percorso di vita e nel raggiungimento dei propri obiettivi. Assistiamo ad un cambiamento molto profondo che ribalta completamente il comportamento delle generazioni precedenti, di una vita dedicata al lavoro. Le nuove generazioni non sono più disponibili a mettere in discussione la propria salute, fisica e mentale, il proprio benessere e la propria felicità per un lavoro. Mentre ricercano una maggiore qualità della vita che, inevitabilmente, deve andare di pari passo con i ritmi lavorativi.
ANNO 2022: FUGA DALLE AZIENDE PER LA GENERAZIONE Z
Le aziende e le organizzazioni sembra tuttavia non abbiano ancora compreso questi radicali cambiamenti e, pertanto, si ostinano a rimanere fedeli ad un modello di lavoro ormai superato, di stampo rigido e per lo più impositivo. Cosa questa che porterà a far osservare sempre con molta più frequenza fenomeni di Quiet Quitting tra i propri dipendent*. Inoltre si deve tener conto che un’altra delle principali cause principali sta nella mancanza di dirigent* in grado di ascoltare le esigenze dei lavorator*, di instaurare con loro un dialogo costante e costruttivo e offrire risposta alle nuove esigenze e aspettative. Una conferma del fatto che bisogna ripensare i rapporti tra manager e impiegat* per creare nuove forme di coinvolgimento e interazione. A questo poi si aggiunge anche la mancanza di opportunità di crescita professionale all’interno della propria azienda tanto che 3 giovani su 4, tra quelli della Generazione Z e anche tra i Millennial, non rimangono sul luogo di lavoro più di un anno. Secondo il Report State of the global workplace 2022 di Gallup, in Europa solo il 14% dei lavorator* è davvero coinvolto nella propria attività lavorativa. Un dato che fa riflettere su quanta poca corrispondenza ci sia tra attitudini, aspirazioni personali, e professione svolta: troppo spesso le persone sono occupate in un lavoro che, in realtà, non risponde alle proprie inclinazioni o talenti e, pertanto, non le soddisfa. Inoltre, questo disinteresse al lavoro da parte della fascia giovane della popolazione va di pari passo con l’affermarsi di una visione sostenibile dello sviluppo sociale ed economico del mondo. E ciò che non viene vissuto come ‘utile’ al raggiungimento di questo obiettivo, non suscita motivazione e produce un allontanamento dal proprio lavoro. I giovani ormai si chiedono quali siano davvero le ragioni in grado di giustificare un loro maggiore sacrificio rispetto quanto invece contrattualmente richiesto. Anche perché, come ancora evidenzia la survey di Gallup, il 39% del campione preso in esame, sperimenta sul lavoro una serie di stress quotidiani che mettono in luce un diffuso malessere psicologico.
LA STORIA DI DOMIZIA: “HO LASCIATO UN LAVORO A TEMPO INDETERMINATO A 1800€ MENSILI PERCHÉ 12 ORE DI INFELICITÀ AL GIORNO NON ME LE POTEVO PIÙ PERMETTERE”
“Ci ho pensato per oltre due anni – racconta Domizia – ma poi ho deciso, anche se a 27 anni uno stipendio di circa 1.800 euro mensili e un contratto a tempo indeterminato nel nostro Paese possono far gola. Non potevo però continuare a lavorare in una azienda che non solo non teneva conto degli studi che avevo fatto, ho una laurea in Economia ad indirizzo Marketing e invece lavoravo come segretaria della responsabile delle risorse umane. Inoltre se non erano le otto di sera, timbro del cartellino con inizio lavoro entro le nove del mattino, non era possibile uscire dall’ufficio. E se rispettavi le otto ore previste dal contratto venivi “vessata” perché considerata una scansafatiche. Quasi dodici ore d’insoddisfazione. Ma la responsabilità era soprattutto del CEO che aveva sostituito l’azienda con casa sua, gli amici con i dipendent* e così il luogo-lavoro era l’unico posto dove intratteneva ogni forma di relazione. A poco a poco ce ne siamo andati tutt*, sono rimasti solo alcuni vertici e tutti oltre i cinquant’anni. E anche adesso c’è un continuo ricambio di personale giovane, ma ogni 8-10 mesi qualcuno si dimette. Pensano di sfruttare la nostra giovane età per farci lavorare tutto il giorno, ma molti di noi hanno la consapevolezza che le relazioni, gli affetti, la famiglia, insomma la propria vita privata ha un valore molto più grande. Il lavoro è indubbiamente una parte importantissima della vita, significa autonomia economica, crescita professionale, possibilità di incontri che ci arricchiscono come persone ma non potranno mai sostituire la vita. Nell’accezione del tempo da dedicare a sé e agli altri come scelta di benessere”.
LA STORIA DI MATTEO: “LA MALATTIA DI MIA MADRE MI HA FATTO CAPIRE CHE LA QUALITÀ DELLA VITA È PIÙ IMPORTANTE DEI SOLDI”
“La mia famiglia mi ha trasferito un forte senso del dovere e il sacrificio a tutti i costi quale mezzo per raggiungere gli obiettivi prefissati. Mi sono laureato a 24 anni in biologia molecolare – racconta Matteo – con il massimo dei voti e mentre mi mancava solo un esame per concludere gli studi una nota multinazionale mi ha chiesto se appena laureato mi avrebbe fatto piacere fare da loro uno stage, per giunta retribuito. Ovviamente ho accettato l’offerta. Dopo sei mesi di stage mi è stato subito proposto un contratto a tempo indeterminato che ho accettato. Da allora sono passati 4 anni e mezzo, e gran parte del mio tempo lo passo in azienda, ben oltre l’orario di lavoro. Anche se sono stato inserito in un settore che ha ben poco a che fare con quelle che sono le mie propensioni e competenze professionali. Nel frattempo però mia madre si è ammalata di cancro e questo ha cambiato molto il mio modo di fare e di essere rispetto al lavoro, ha cambiato le priorità e ho messo al centro altri valori. Certo non bisognerebbe passare per questo tipo di esperienza per capire che spesso, troppo spesso, il gioco non vale la candela. E per questo devo dire grazie anche all’aiuto dello psicoterapeuta a cui mi sono rivolto quando ho capito che la sensazione dominante che vivevo era un profondo senso di scontento, di frustrazione nonostante la consapevolezza di percepire, per la mia giovane età, un ottimo stipendio. Ma non basta, la qualità della vita è più importante dei soldi. Così ho fatto richiesta all’azienda di passare nel settore che ritengo più consono alle mie capacità e agli studi che ho effettuato. A breve sono in attesa di una risposta e se non fosse positiva ho deciso di dimettermi”.
RIPENSARE RUOLI E RELAZIONI SUL POSTO DI LAVORO PER CONTRASTARE IL QUIET QUITTING
La storia di Domizia e Matteo rappresentano un po’ l’emblema di questo fenomeno che sta diventando trasversale a molti Paesi Europei e d’oltreoceano. Ma qualcosa si può fare secondo sociolog* per contrastare il Quiet quitting: innanzitutto bisogna far leva sulla qualità delle relazioni con i colleghi di lavoro e sul valore del lavoro di squadra, costruendo team equilibrati in cui ognun* possa trovare il proprio spazio e una buona dose di libertà di espressione. Senza dubbio questo fenomeno ci impone delle domande rispetto all’epoca storica in cui viviamo e soprattutto rispetto a quali siano le priorità nella nostra quotidianità e al valore del tempo. Sociolog* ed espert*, in diversi settori, stanno cercando quindi di comprendere le ragioni alla base del Quiet quitting per restituire quello che deve essere il giusto posto al lavoro nella vita di ognun* di noi.