HIKIKOMORI IN ITALIA
Chi sono i ragazzi che scelgono di non uscire più di casa? Vediamo similitudini e differenze con gli hikikomori giapponesi, e le cure ad oggi disponibili
HIKIKOMORI IN ITALIA
HIKIKOMORI ITALIANI: QUANTI SONO?
L’hikikomori in Italia ha numeri decisamente inferiori rispetto al Giappone, contando circa 100mila casi, contro il milione e 2mila attestati nel Paese del Sol Levante (ma con un “sommerso” stimato in quasi 10 milioni di persone). Un piccolissimo esercito di giovanissimi e giovani adulti che ogni anno arruola nuove reclute. Il trend appare in crescita dovunque, favorito, negli ultimi due anni, dall’effetto lockdown dovuto alla pandemia da Covid-19. Il fenomeno hikikomori, “esploso” in Giappone a fine anni novanta e ben descritto dallo psichiatra Tamaki Saitō, al quale dobbiamo anche la scelta del termine che lo descrive, pur mantenendo delle caratteristiche peculiari nel luogo d’origine, ha poi diffuso similarmente ad una piovra i suoi tentacoli in Europa, Australia, tutto il sudest asiatico, e USA, in modi coerenti con il contesto sociale delle nazioni in cui i casi sono stati attestati. Dobbiamo infatti ricordare che l’hikikomori non è annoverata tra le patologie psichiatriche a meno che non parli dell’hikikomori secondario. Si tratta, pertanto, di un disagio socio-adattivo che esordisce in età giovanile (tra i 15 e i 27-30 anni) con l’autoreclusione nella propria stanza per un tempo di almeno sei mesi, e può teoricamente protrarsi per un tempo illimitato. Se questa condizione è comune a tutti i casi di hikikomori studiati nel mondo, i fattori di rischio e precipitanti possono essere assai variabili. Il canale di comunicazione con l’esterno – spesso l’unico – è la tecnologia digitale, un medium che gioca un ruolo chiave anche nella “mitizzazione” del fenomeno hikikomori, e nella sua espansione fuori dal Giappone. Chiarito questo, vediamo cosa distingue gli hikikomori italiani da quelli giapponesi.
DIFFERENZE CON L’HIKIKOMORI GIAPPONESE
In origine, gli hikikomori giapponesi si incanalavano in una sorta di tradizione nazionale: l’isolamento dal contesto sociale come scelta esistenziale. Si è trattato fin dal principio di un disagio per lo più maschile (tra l’80-90% sul totale dei casi) emerso in contesti familiari di elevato status sociale. Tuttavia, se questo tipo di vita eremitica poteva avere un senso in persone che aspiravano ad un’ascesi spiritual-religiosa, o che continuavano ad essere professionalmente attive pur se ritirate dal mondo (ad esempio artisti, studiosi, letterati), la cosa risultava incomprensibile per giovani che ancora studiavano o che appena stavano introducendosi nel mondo lavorativo. Ecco perché il fenomeno si presentava (e si presenta tuttora), in famiglie ad alto reddito, in grado di poter mantenere per lunghi periodi figli neet (che non studiano e non lavorano) in condizione di hikikomori. In quei primi casi – parliamo ancora degli anni 80-90 – l’unica attività praticata dagli hikikomori giapponesi era la lettura di manga (fumetti giapponesi) e poco altro, non essendo ancora la rete internet e gli strumenti digitali diffusi capillarmente come ora. Da ciò capiamo che dietro il fenomeno del ritiro volontario non c’è la dipendenza dal web, come sbrigativamente ipotizzato dopo il lockdown pandemico che ha inciso sull’aumento dei casi, ma ben altro. I tratti psicologici ricorrenti negli hikikomori giapponesi sono: spiccata ansia/fobia sociale che può sfociare nel FOMO (Fear of Missing Out, paura di essere tagliati fuori), timidezza patologica, paura di fallire, spesso morboso attaccamento alla madre. La causa sociale preminente in Giappone è però l’enorme pressione e la competitività (che comincia fin dall’infanzia) per il raggiungimento di traguardi brillanti – nella carriera scolastica, universitaria e professionale – che ai giovani maschi si impone da parte delle famiglie e della scuola. Le enormi aspettative che gravano su questi giovani (sovente figli unici) risultano intollerabili ai soggetti più sensibili, così come la vergogna che segue l’incapacità di raggiungere gli obiettivi prefissi. Casi di hikikomori si sono quindi osservati tipicamente nei giovani maschi che avessero sperimentato fallimenti ambito scolastico/lavorativo/sportivo e che, ritirandosi volontariamente da tali contesti, avessero inteso manifestare anche una ribellione ad un modello sociale ritenuto insostenibile. La visione “pessimistica” della vita, e il convincimento di non poter trovare un proprio posto attivo e produttivo nella società sono quindi una molla che spinge al ritiro. Nelle ragazze hikikomori, il sentimento prevalente sembra essere il senso di solitudine, isolamento e emarginazione sociale. E in Italia?
L’hikikomori italiano non rifiuta la società perché troppo opprimente e rigida, ma poiché non riesce ad adeguarsi ai suoi standard – per ragioni “strutturali” della personalità, decide di rifugiarsi nell’autoreclusione. Il contesto socio-scolastico italiano è infatti percepito come meno pressante e con standard di perfezione meno elevati rispetto a quello giapponese, ma comunque eccessivamente sbilanciato sulle abilità comunicative e relazionali. Altre importanti differenze tra hikikomori giapponesi e italiani rilevate negli studi osservazionali:
- Gli hikikomori gIapponesi sono in grande maggioranza i primogeniti maschi (perché su di loro si esprime la massima pressione e le più alte aspettative di successo da parte delle famiglie), mentre in Italia l’ordine di nascita non sembra costituire fattore di rischio. In comune vi è l’estrazione sociale medio-alta.
- Gli hikikomori giapponesi presentano spiccati tratti di timidezza, in molti casi sono stati vittime di violenza domestica o provengono da contesti familiari disfunzionali, mentre in Italia è meno presente questo fattore. Da segnalare che mentre le madri giapponesi tendono a “coprire” i loro figli hikikomori, assecondando la loro richiesta di isolamento in camera anche per la consumazione dei pasti, che vengono serviti loro su vassoi lasciati fuori dalla stanza, in Italia i genitori cercano fin da subito di spingere i figli ad uscire dalla loro “prigione”. Il senso di vergogna e la tendenza a nascondere il figlio hikikomori che è tipico del Giappone, in Italia non si registra.
- In Italia le difficoltà di interazione sociale, di relazione con l’altro sesso e con i coetanei dello stesso sesso, nei soggetti con carattere ansioso sono predominanti, rispetto al fallimento scolastico tipico dell’hikikomori giapponese. Fattore di rischio comune in tutti i casi di hikikomori registrati nel mondo è l’essere stati vittime di bullismo.
- La durata media della fase acuta di reclusione è inferiore in Italia, rispetto a quanto riscontrato in Giappone, e sono molto più numerosi i fenomeni “ibridi”, in cui il ritiro nella propria stanza non è totale (spesso l’hikikomori italiano continua ad andare a scuola, o si ritira per un breve periodo).
- In Italia vi è una predominanza di hikikomori primario, non associato ad altre patologie psichiatriche che spieghino tale scelta, ed è pertanto vissuta dai protagonisti non come una condizione da “curare”, ma come una possibilità del tutto arbitraria e quindi giusta, legittima, non contestabile, di condurre la propria esistenza.
LE TERAPIE IN ITALIA
Come si “cura” un hikikomori? Costringendolo ad uscire? Non sembra la risposta adeguata. Le cure si modulano in base alla persona e al suo ambiente familiare, che gioco forza viene coinvolto nel percorso riadattivo e che quasi mai comportano la somministrazione di psicofarmaci, a meno che non si debbano trattare altre patologie psichiatriche concomitanti (hikikomlri secondario). Il percorso può essere sfiancante, soprattutto per i congiunti, e punteggiato da piccoli progressi e continui passi indietro. Tuttavia, essendo in Italia più comune la tipologia ibrida di hikikomori rispetto allo standard giapponese, ed essendo decisamente minore lo stigma che circonda questi ragazzi, anche il recupero in molti casi è più breve. Le terapie disponibili sono diverse e in continuo perfezionamento, perché il disagio che è all’origine di ogni hikikomori ha cause e modalità di espressione peculiari. A spiegarci come si interviene – agendo sia sul soggetto, specie se molto giovane, che su scuola e familiari – è il professor Ignazio Ardizzone, neuropsichiatra infantile presso il Policlinico Umberto I di Roma, e co-fondatore del progetto “Isole”, nato proprio per “riabilitare” alla vita socio-scolastica ragazzi e ragazze in ritiro volontario.
“Esporre questi pazienti alle cure è difficilissimo. Distinguiamo due gruppi: i ragazzi completamente isolati e quelli che mantengono un rapporto con l’esterno. Nel primo caso, il “progetto isole”, un progetto operativo creato presso il nostro dipartimento, prevede tra le cinque e le dieci seduta diagnostiche di psicoterapia familiare a casa del paziente con una frequenza settimanale. Al termine di questo intervento si costruisce un progetto che prevede l’utilizzo di psicoterapia individuale e compagno adulto, terapia di gruppo per i pazienti e per i familiari. È molto importante che il momento della diagnosi e della costruzione del progetto terapeutico riabilitativo sia condiviso dalla famiglia, dai sanitari e dalla scuola. La Scuola svolge un ruolo fondamentale nel progetto terapeutico-riabilitativo di questi ragazzi e deve mostrare flessibilità e disponibilità. Poi c’è un altro motivo. Gli adulti devono dare a questi ragazzi l’impressione di essere capaci di fidarsi gli uni degli altri, devono essere capaci di lavorare insieme e di essere coerenti e presenti. Questo già di per sé ha un grande valore terapeutico. Per quanto riguarda la terapia farmacologica è sintomatica e deve essere utilizzata all’interno del progetto.
Non sempre, però, mantenere l’hikikomori all’interno del proprio nucleo familiare, tra le mura del proprio domicilio, si dimostra utile o efficace ai fini del reinserimento sociale:
“Nei casi più gravi si deve prendere in considerazione, un allontanamento dal nucleo familiare che però non può essere, almeno nella mia esperienza, di breve durata. Si tratta in primo luogo di lavorare sui ritmi idiosincratici di questo tipo di pazienti, ad esempio quello sonno-veglia. Il tema è quello di un luogo, dove ricostruire il fascino della relazione con l’altro e combattere la tendenza verso il non umano. L’equipe dovrebbe lavorare per valorizzare capacità e talenti di questi ragazzi dandogli un senso relazionale. Ricostruire la curiosità per l’altro. Credo che dovremmo metterci a tavolino per costruire luoghi adatti a questo tipo di intervento. Luoghi in cui si possa lavorare sulla menomazione sociale, anche quella presente in altri tipi di patologie. Nel corso del tempo, quindi, mi sono reso conto che per alcuni casi particolarmente gravi il ricovero in comunità è necessario. Non sono assolutamente sufficienti, dal mio punto di vista, brevi ricoveri ospedalieri che anzi a volte possono essere controproducenti”.
Il supporto ai familiari, in particolare i genitori di ragazzi hikikomori è dunque altrettanto cruciale quanto il trattamento dei soggetti stessi. Per questo esistono in Italia le associazioni dei genitori – tra cui Hikikomori Italia – che si supportano anche attraverso i gruppi AMA (Mutuo Auto Aiuto), attivi in tutte le regioni con la moderazione di educatori e psicologi. Un modo per lenire il senso di colpa, e sentirsi meno disperati nella segreta angoscia di veder languire i propri figli – annichiliti davanti ad uno schermo sempre acceso – in quelli che dovrebbero essere i migliori della loro vita, murati vivi nei loro amati sepolcri.
DOCUMENTARI E CORTI: RACCONTARE GLI HIKIKOMORI ITALIANI
Il fenomeno hikikomori in Italia registra negli ultimi anni curiosità e interesse crescenti. Per tale ragione anche i media hanno acceso i riflettori sui ragazzi e sulle ragazze in fase di reclusione volontaria, allo scopo di raccontarne le storie. Per comprendere una scelta così radicale, e allo stesso tempo lucida e consapevole, è infatti necessario provare a mettersi nei panni di un hikikomori, e guardare al mondo con la sua prospettiva. Una visione certamente amara, disincantata, distorta, ma comunque importante da considerare anche per chi non la potrebbe mai condividere. Quando un fenomeno sociale di questa portata da trascurabile inizia a diventare visibile, allora è importante registrarne l’esistenza, e lasciarne ai posteri quante più testimonianze possibili. Non sappiamo se gli e le hikikomori aumenteranno, o se questa tendenza, che in parte si spiega anche come fenomeno “di moda” che si autoalimenta grazie ad una narrazione accattivante e autocompiaciuta, andrà a scemare nel tempo. Quello che possiamo fare – come non addetti ai lavori – è osservare questi ragazzi, ascoltarli, e cercare di capire cosa si è inceppato nel loro percorso di crescita, e cosa si può fare per alleviare il profondo senso di disagio interiore che sentono, e che li spinge a rifiutare in toto il consorzio umano di cui pure fanno parte. Segnaliamo due esempi interessanti.
HO TUTTO IL TEMPO CHE VUOI (LO SPIRAGLIO)
Prodotto in collaborazione con RAI Cinema e COeSO (Società della Salute di Grosseto), per la regia di Francesco Falaschi, Ho tutto il tempo che vuoi è un cortometraggio del 2020 che racconta la storia di Matteo (Luigi Fedele), ragazzo hikikomori che decide di non andare più a scuola e trascorrere le sue giornate in cameretta, al computer. In suo aiuto – su richiesta dei servizi sociali e della madre del giovane – arriva l’educatrice Sara (Cecilia Dazzi), che cerca di far entrare spiragli di luce nell’esistenza claustrofobica e senza speranza di Matteo. Ho tutto il tempo che vuoi ha vinto il premio di miglior corto all’Asperger Film Festival 2020 (ASFF 2020)
Il cortometraggio è visibile a tutti su RaiPlay
AFRAID OF FAILING
Afraid of failing è un documentario del 2019 prodotto dalla Media company Shawlab e RAI 3, scritto e diretto da Davide Tosco in collaborazione con il giornalista RAI Fabio Mancini. Per la prima volta si racconta il fenomeno hikikomori nel nostro Paese raccogliendo – grazie alla collaborazione delle associazioni Hikikomori Italia, L’Istituto Minotauro di Milano e l’Ospedale Regina Margherita di Torino – le storie di un gruppo di giovani hikikomori italiani dalla loro voce. Il documentario è disponibile alla libera visione su RaiPlay
Fonti:
https://journals.francoangeli.it/index.php/qpcoa/article/view/12137/989
https://cab.unime.it/journals/index.php/MJCP/article/view/2312/pdf
De Michele F, Caredda M, Delle Chiaie R, Salviati M, Biondi M. [Hikikomori ( ): a culture-bound syndrome in the web 2.0 era]. Riv Psichiatr (2013) 48(4):354–8. doi:10.1708/1319.14633
http://annali.unife.it/adfd/article/view/2329
https://www.dors.it/page.php?idarticolo=3658
https://www.academia.edu/26048271/Il_fenomeno_Hikikomori_Fiorenzo_Ranieri_Psicologo_UFSMIA_Usl_Sudest_Arezzo