La mia vita da caregiver
Una vita di riserva. Per dormire profondamente. Curare il proprio aspetto. Gustarsi con calma un piatto di pasta. Guardare un film alla tv fino ai titoli di coda. È davvero solo questo, il tempo per sé, quello di cui ha bisogno un caregiver? No, si commette un errore di ingenuità a pensarlo. Un caregiver ha bisogno di molto altro…
Ci sono giorni buoni, naturalmente. Sono quelli in cui le cose vanno lisce: il tuo accudito sembra di buon umore, non lamenta particolare dolore, ha dormito. In cui vai a fare le commissioni nel tempo che hai a disposizione, incontri persone gentili e magari qualcuno che ti cede il posto in fila alla posta. Scopri che alla Asl c’è un’impiegata che ha capito le tue difficoltà, e fa un paio di telefonate per risolvere una pratica anziché costringerti a tornare.
Ci sono i giorni neutri, la maggior parte.
E poi ci sono i giorni disastrosi. In cui il tuo accudito non collabora, o si lamenta per problemi che non è in grado di spiegare e ti costringe a telefonare alla sua oncologa che non risponderà. Oppure durante la solita medicazione scoprirai una lesione nuova, e dovrai chiamare l’infermiere dell’assistenza domiciliare, ma se è domenica allora sono guai. E cerchi di non perderti d’animo.
A volte ti senti urlare, e capisci che stai urlando contro la persona che più ami al mondo. E lo sai che quella persona accoglie le tue urla con gli occhi pieni di dolore. Perché tutto avrebbe voluto nella vita, tranne che costringerti a fare quella parte. Però tu sei tremendamente stanca. Pensi alla tua vita dopo. Pensi quello che non dovresti pensare. Ti senti in colpa, chiedi scusa. Domani andrà meglio.
Ci sono caregiver e caregiver. Ci sono quelli che lo fanno a metà, che dividono il compito con altri caregiver. Ci sono quelli che hanno vissuto quasi due terzi della loro vita come mogli e mariti di persone che si ammalano. E poi ci sono quelli come me: i figli rimasti unici, che a 35 anni hanno già perso più della metà della propria famiglia, e a poco più di quaranta stanno lottando per non perdere anche l’ultimo pezzo, che ha dovuto subire una tracheotomia permanente ed è portatore di peg.
Perciò quelli come me…
Devono fare tutto da soli, potendo delegare pochissimo del loro ruolo. Sono quelli che dormono con un orecchio al trillo del campanello che può suonare nella notte. E quando suona, si alzano per aspirare con l’aspiratore chirurgico le secrezioni di muco che risalgono verso la gola del loro genitore. Poi svuotano il contenitore dove il muco si accumula, lo sanificano e tornano a letto.
Quelli come me si alzano prestissimo al mattino per riuscire a mangiare qualcosa prima di preparare la colazione all’assistito, frullarla, farla raffreddare e somministrarla per via enterale.
Quelli come me passano mezza giornata a pensare agli altri pasti in modo che siano bilanciati, digeribili, e che soprattutto possano essere frullati alla perfezione. Quelli come me sanno che devono avere sempre pronto del liquido per diluire: brodo vegetale, bevanda di riso, persino tè deteinato senza zucchero. Guai a non averli a portata di mano. Anche i farmaci vanno somministrati in questo modo.
Quelli come me portano l’accudito a fare le terapie in ospedale e vanno e riprenderlo, gli portano il cibo frullato da casa e glielo somministrano, mentre guardano gli altri pazienti mangiare il panino o il piatto di pasta preparati dal catering.
Quelli come me tengono i contatti con i medici, sanno sempre quali e quanti farmaci il loro assistito deve assumere di volta in volta, e vanno alla farmacia territoriale per ritirarli, sperando che non ci sia troppa fila.
Quelli come me a volte devono smettere di lavorare, far ottenere all’assistito invalidità e accompagnamento, e usarli per pagare una persona che faccia qualcosa al posto loro: le pulizie di casa, la spesa, le commissioni. Quelli come me se vogliono uscire a mangiarsi una pizza devono pagare un oss per le ore di assenza.
Quelli come me vivono in attesa del giorno dell’esito degli esami. Aspettano quel giorno, e aspettano quello dopo.
E intanto hanno bisogno di…
Di servizi che funzionino, di impiegati solerti, di medici disponibili, di validi infermieri, di sovvenzioni statali che li aiutino se perdono il lavoro per fare quello che altrimenti spetterebbe ai servizi sociali.
Hanno bisogno di non sentirsi soli nella gestione della malattia, di efficienza e competenza da parte di chi somministra le terapie, ma anche di empatia. Di qualcuno che li guardi negli occhi, che li “veda”, che veda quello che stanno facendo e agisca per agevolare il loro compito, e in tal modo, concorra a preservare il loro equilibrio mentale.
I caregiver non se ne fanno nulla di aiuti abborracciati, di una compagnia per distrarsi. Al contrario, bramano qualcuno che dica loro che quello che fanno ha valore.
Quello di cui hanno bisogno, è un aiuto professionale laddove è previsto che ci sia. Di indicazioni pratiche su cosa fare quando sono soli con l’assistito. Di numeri di telefono che non squillino a vuoto. Di non dover aspettare per le visite di controllo, di non dover elemosinare i presidi salvavita.
Solo così, con un sistema sanitario e una rete di servizi che remi dalla sua parte, per un caregiver è possibile vivere il suo ruolo profondamente, dignitosamente e coraggiosamente.
La vita di un caregiver è durissima. Ma è insostituibile. E dentro di te lo sai che nulla è paragonabile a questo. Che accompagnare tuo padre fino agli ultimi metri del suo calvario è ineguagliabile. Che dopo…dopo sì che potrai vivere la tua vita di riserva, e qual punto dormire, uscire, mangiare con calma un piatto di pasta e guardare un film fino ai titoli di coda seduta sul divano.
Autore: PAOLA P., Redazione UpValue