L’organizzazione della salute mentale in carcere: riflessioni sui disturbi antisociali
A partire dal DPCM del 1 aprile 2008, si è passati dalla gestione della salute mentale in carcere da parte del Ministero della Giustizia a quella della Sanità prima e Salute poi.
Processo inevitabile per molti, attraversato da svariate resistenze specialmente all’interno dell’organizzazione carceraria, ha incontrato e incontra ancora oggi diverse difficoltà per la sua piena attuazione.
La questione delle risorse umane e non, sempre presente, in parte anche con un suo fondamento, è spesso brandita come alibi da chi vede ancora la presenza del personale sanitario delle ASL a volte come ingombrante o addirittura un ostacolo al “normale” svolgimento delle attività sanitarie negli istituti penitenziari.
Ovviamente se questo è vero, anche se non del tutto e non ovunque nella stessa maniera, per i medici non specialisti, lo è molto di più per gli specialisti, in particolare quelli le cui relazioni possono avere un forte peso nel destino di alcuni pazienti detenuti; tra questi, gli psichiatri vengono vissuti e considerati, a torto o a ragione, quali risolutori a tutto tondo delle difficili situazioni che si presentano in carcere.
Ogni o quasi comportamento che si discosta dalla cosiddetta norma o normalità (che non sono proprio la stessa cosa), diventa subito terreno di azione dello psichiatra che riceve l’investitura del salvatore, del demiurgo, del mago, del risolutore di quasi ogni problema che emerge.
Quando qualcosa sfugge alla comprensione dei più, ecco che subito entra in gioco lui, il “medico dei matti”, l’esegeta del tutto e del suo contrario.
Si chiama lo psichiatra per capire, ma soprattutto per sedare e placare gli animi dei folli rei o dei rei folli. A tal fine, crediamo opportuno allora, fare un po’ di chiarezza sulla logica in cui ci si muove, quando si opera in questi contesti così delicati.
Gli psichiatri
Gli psichiatri vengono vissuti e considerati, a torto o a ragione, quali risolutori a tutto tondo delle difficili situazioni che si presentano in carcere. Quando qualcosa sfugge alla comprensione dei più, ecco che subito entra in gioco lui, il “medico dei matti”, l’esegeta del tutto e del suo contrario.
La malattia psichiatrica in carcere
Tanto per cominciare va detto che esistono diverse teorie sull’alta prevalenza (oltre che incidenza) di patologia psichiatrica in carcere. Alcuni studi affermano che i problemi di salute mentale precedono la reclusione; altri, di parere opposto, sostengono che sia proprio l’esperienza carceraria a peggiorare le già precarie condizioni di salute mentale, come l’ansia e la depressione, in quanto reazioni comprensibilmente legate alla detenzione.
Un’altra prospettiva individua il carcere come un contenitore di cittadini “fragili e difficili”, ovvero di persone caratterizzate da una serie di diverse problematiche, sia sociali sia sanitarie, che potrebbe giustificare in tal modo la presenza di un numero così elevato di soggetti con problemi psichici. Come sempre, quando in campo ci sono molte ipotesi, spesso quella più vicina alla verità è la somma di tutte queste dosate in percentuali diverse.
Oltre alla maggiore prevalenza rispetto alla popolazione generale, i detenuti con disturbi psichiatrici sono di più giovane età, hanno molto più di frequente e assai precocemente una storia di poliabuso di sostanze e più compromesse condizioni fisiche, vivono e crescono in contesti ambientali più degradati e si avvalgono di una rete di supporti sociali estremamente più fragili, non riuscendo a beneficiare di misure alternative rispetto alla popolazione carceraria sana.
In carcere i disturbi psichiatrici appaiono notevolmente sottostimati o quantomeno misconosciuti e sotto-trattati, in quanto nei detenuti i sintomi non sono riconosciuti come tali per la carenza o delle procedure di screening, o della formazione dello staff nel riconoscimento della sintomatologia, o per l’esiguità del personale addetto o ancora una volta un po’ di tutto questo.
Il personale sanitario in carcere
In particolare, la delicata questione della formazione del personale sanitario, a tutti i livelli, appare da subito e resta ancora una delle criticità per l’applicazione completa della riforma. Essere e/o ricevere una adeguata e corretta formazione sul campo non significa solo essere informati sul funzionamento delle carceri, significa entrare a far parte di quella che ormai resta l’ultima istituzione totale, nel bene e nel male, avendone piena consapevolezza.
Significa mantenere una propria identità di ruolo e di funzione, interfacciandosi con l’amministrazione e la polizia penitenziaria, senza essere schiacciati ma anche senza ritenersi i portatori dell’unica e sola verità.
Certamente il potere contrattuale e storico del personale della Giustizia è assai maggiore per tradizione e per proporzione, e molti hanno visto l’ingresso del personale ASL come una sorta di ingerenza all’interno di un sistema che girava comunque da sempre in un certo modo.
Di questo andava e va tenuto conto e ancor più per questo il personale deve essere formato tanto e bene. Invece, purtroppo, spesso è accaduto che nei fatti, i criteri di ingresso nelle carceri di medici, infermieri e altro personale sanitario fossero tutt’altro che legati alle capacità e alle competenze.
Risulta difficile pensare che ci sia una grande richiesta e motivazione nel cercare di andare a lavorare in un istituto penitenziario; così spesso è accaduto che si arrivava in carcere per “esclusione”, dopo che le altre scelte si erano esaurite.
Invece di selezionare i soggetti per motivazione e adeguata formazione, come dire le persone giuste al posto giusto, ci si è ritrovati a coprire i posti dopo che tutte le altre sedi disponibili si erano saturate. Pessima cosa. Invece dei migliori, a volte ci si è ritrovati con soggetti che per molte ragioni non erano riusciti a entrare in altri settori lavorativi più ambiti. Si aggiunga a ciò che non vi sono neanche incentivi nell’andare a lavorare in carcere, né economici né di altra natura: ed eccoci quindi giunti al risultato attuale.
Meno si è forti rispetto alla propria funzione, meno si può incedere sulla qualità dell’assistenza fornita, col rischio di essere risucchiati nel vortice del potere di coloro che avevano gestito la stessa cosa nel recente passato fino alla riforma sopra citata.
Tipologie di disturbi mentali nei detenuti
Alcuni sostengono che oltre il 50% dei detenuti soffre di un qualche disturbo mentale. Non è proprio del tutto così: vanno distinti i disagi reattivi dai veri quadri clinici patologici e così le percentuali scendono al 25-30%.
Di questi, 1 su 7 soffre di un disturbo psicotico o di un qualche tipo di depressione. I disturbi di personalità sono dieci volte più frequenti, in particolare quelli Borderline del cluster B. Vi è coesistenza di una co-dipendenza dalle sostanze.
L’uso/ abuso di sostanze (esistono ormai centinaia di diversi principi attivi e si hanno kit per individuarli solo per un esiguo numero di essi) è diffusissimo, oltre le cosiddette Doppie Diagnosi (DD, coesistenza di malattia mentale e tossico- dipendenza, che più correttamente andrebbero definite comorbilità). Tutto ciò “sporca” i quadri clinici e inficia le possibilità di adeguati trattamenti clinici.
Proprio a proposito delle DD, appaiono molto importanti anche il ruolo e le funzioni del SerD interno alle carceri, per poter co-gestire insieme al DSM i quadri clinici assai complessi, anche in relazione al fatto che i due aspetti, la tossico-dipendenza e la patologia psichiatrica, spesso risultano essere così connessi ed embricati tra loro che scindere la gestione appare più una necessità organizzativa che una esigenza clinica e terapeutica.
Appare utile, anzi necessario, a tal proposito fare una distinzione tra disagio e/o disturbo/malattia. Il disagio è qualcosa di limitato e transitorio che non coinvolge tutta l’esistenza del soggetto, come alcune fobie minori, tratti ossessivi, aspetti legati al carattere, situazioni ambientali. Il disturbo o malattia vera e propria è come tutte le altre malattie somatiche, con componenti miste, psichiche, costituzionali, genetiche/ereditarie, ambientali.
Distinzione tra disagio e/o disturbo/malattia
Il disagio è qualcosa di limitato e transitorio che non coinvolge tutta l’esistenza del soggetto, come alcune fobie minori, tratti ossessivi, aspetti legati al carattere, situazioni ambientali. Il disturbo o malattia vera e propria è come tutte le altre malattie somatiche, con componenti miste, psichiche, costituzionali, genetiche/ereditarie, ambientali.
Disturbi antisociali di personalità
Volendo fare una scelta di campo, abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione in particolare su alcuni quadri clinici assai comuni in carcere, nello specifico sui Disturbi Antisociali di Personalità.
In particolare, tale diagnosi riguarda la cosiddetta Generazione Z o Centennials (cioè i nati dal 1995 e fino al 2012) che sembrano avere una maggiore predisposizione a sviluppare tali comportamenti rispetto ai Millennials o Generazione Y (cioè i nati tra il 1981 e il 1995), per il maggior isolamento relazionale e il più diffuso abuso di sostanze.
Si distinguono 5 differenze cruciali tra le due generazioni e riguardano: diversità, stress, identità di genere e orientamento sessuale, tecnologia e social media, rapporto genitori-figli.
Tra qualche anno, forse ci troveremo a fare i conti con gli effetti dell’attuale pandemia da Covid-19, in particolare su quei soggetti oggi adolescenti che stanno vivendo il trauma e la frustrazione legati alle attuali restrizioni e si dovrà coniare una nuova definizione ad hoc.
Il Disturbo Antisociale di Personalità, secondo il DSM-5, è compreso all’interno del cluster B dell’ultima edizione del Manuale Diagnostico; tra i disturbi di personalità è caratterizzato da un modello pervasivo di disprezzo per le regole e le leggi altrui. I numerosi atti illeciti che compie il soggetto antisociale possono essere giustificati razionalmente da lui stesso, oppure essere compiuti con assoluta indifferenza verso i diritti altrui.
La prevalenza del Disturbo Antisociale di Personalità cambia a seconda delle caratteristiche della popolazione esaminata: oscilla dal 2-3% circa nella popolazione generale, fino ad arrivare a più dell’80% nelle valutazioni eseguite negli istituti di pena e nelle carceri. Inoltre, il disturbo antisociale è più frequente nei maschi che nelle femmine, con una base che potrebbe trovare una sua qualche spiegazione anche nella neuropsicologia. Si riscontra con più frequenza tra i 24 e i 44 anni, con una percentuale in diminuzione dopo i 45 anni di età.
Di seguito si elencano i criteri diagnostici presenti nel DSM- 5. Devono essere necessariamente presenti tre o più dei seguenti criteri:
- Non conformità alle norme sociali e alla legalità, non a caso una grande parte dei soggetti con diagnosi di disturbo antisociale si trova in carcere. Gli altri e le leggi sono fonte di disprezzo, spesso espresso distruggendo proprietà, molestando gli altri o rubando senza rimorso.
- Uso di menzogna o disonestà, per profitto o per piacere. I soggetti con Disturbo Antisociale possono ingannare, sfruttare, raggirare o manipolare le persone per ottenere tutto ciò che vogliono. Anche l’istrionico manipola gli altri, spesso in modo seduttivo, ma per ottenere cura, attenzione e vicinanza, non per profitto.
- Incapacità di pianificazione e impulsività, legata alla loro noncuranza verso le conseguenze delle loro azioni. Gli antisociali tendono a non pianificare il futuro. Inoltre, non considerano le conseguenze sulla propria sicurezza ma anche su quella degli altri, quindi possono all’improvviso cambiare vita, lavoro, e relazioni. Questo criterio si ritrova anche nel Disturbo Borderline di Personalità.
- Irritabilità e aggressività, con una elevata frequenza di scontri fisici e assalti. Violenza e cattiveria sono caratteristiche di questa personalità, usate come mezzi per ottenere i propri obiettivi ed esprimere il profondo disprezzo verso gli altri.
- Spericolatezza, riguardo le conseguenze delle proprie azioni sugli altri ma anche su sé stessi.
- Irresponsabilità lavorativa o finanziaria continuativa, proprio perché il Disturbo Antisociale impedisce al soggetto di avere routine e una vita costante. Non cercano lavoro e non adempiono alle loro responsabilità, anche economiche.
- Mancanza di rimorso, oltre che indifferenza per i danni causati, come avviene anche in alcuni profili di Disturbo Narcisistico di Personalità.
Prima però delle chirurgiche ma anche utili descrizioni categoriali degli autori americani, molti altri si erano cimentati in questo campo. Beck, ad esempio, distingueva nel disturbo antisociale di personalità (psicopatico e/o sociopatico con le dovute e necessarie differenze tra loro) gli aspetti cognitivi maggiormente salienti di chi presenta il disturbo e delle strategie principalmente adottate di conseguenza.
Le loro caratteristiche sono: la visione di sé (solitario, autonomo, forte); la visione degli altri (vulnerabili, sfruttanti); le convinzioni (sentirsi in diritto di non seguire le regole, gli altri sono delle nullità, io sono migliore degli altri); le strategie (attaccare, rubare, ingannare, manipolare).
Il soggetto con disturbo di personalità con tratti antisociali è caratterizzato dalla tendenza a violare le regole e i diritti degli altri. Viene normalmente descritto come abile nel manipolare le altre persone, soprattutto quelle che percepisce come più deboli.
È impulsivo, non pianifica, tende a mentire senza vergogna né rimorso e nel suo comportamento vengono a palesarsi spesso aggressività, irresponsabilità, noncuranza per la sicurezza propria e altrui. Queste persone normalmente hanno avuto problemi con l’autorità e con la giustizia: già nella loro storia infantile o giovanile vi sono spesso problemi di comportamento, sin dai tempi della scuola (es. atti di bullismo, problemi con la legge, furti, uso di sostanze, precocità sessuale, aggressioni fisiche, etc.).
Beck e Freeman già nel 1990 condussero degli studi nei quali si evidenziava come questi disturbi divengono delle modalità pervasive di conoscenza, che tendono a sostituire o inibire schemi che sarebbero invece più appropriati in una determinata situazione, che promuoverebbero comportamenti più adattivi.
Secondo gli autori, nei Disturbi di Personalità essi avrebbero un’operatività continua, quasi potremmo dire inarrestabile, che procede ininterrotta nel corso dello sviluppo di tutta la vita dell’individuo. Tali schemi disfunzionali si innescano molto facilmente e divengono predominanti, mentre quelli che dovrebbero compensarne l’azione vengono decisamente e facilmente inibiti.
Esisterebbe quindi un legame diretto tra convinzioni e atteggiamenti di base, guidati dagli schemi, da un lato, e comportamenti dall’altro a costituire un vero e proprio cambiamento cognitivo.
Le formulazioni di Beck riferibili all’area del cognitivismo mostrano una serie di limiti, come sottolineava Guidano, in ordine al ruolo delle emozioni e in generale al processo di costruzione della conoscenza personale e dei rapporti di quest’ultima con l’area sociale e culturale, in cui la persona è immersa. Queste teorizzazioni si focalizzano su aspetti specifici del funzionamento della persona, trascurando aspetti essenziali del funzionamento e quelli relativi al contesto interattivo.
Di seguito verranno descritte le caratteristiche dei cosiddetti antisociali, psico e socio-patici, tenendo a mente le differenze esistenti tra i due quadri dalla comune radice.
Antisociale sociopatico e psicopatico
Molti ricercatori ritengono che la sociopatia sia il risultato di fattori ambientali, come l’essere cresciuto da bambino o da ragazzo in un contesto familiare negativo, caratterizzato spesso anche da abusi fisici, emotivi o traumi durante l’infanzia. I sociopatici, in generale, tendono a essere più impulsivi e imprevedibili nel loro comportamento.
Diversamente dagli psicopatici, molti sociopatici non hanno lavori a lungo termine o non presentano una vita familiare normale. Quando un sociopatico assume un comportamento criminale, lo fa in maniera impulsiva e largamente non pianificata, con poco riguardo per i rischi e le conseguenze delle sue azioni. Possono inoltre facilmente diventare agitati e arrabbiati, il che si manifesta, a volte, con scoppi violenti. Questi tipi di comportamento, ovviamente, aumentano le possibilità che questi soggetti siano arrestati e giungano quindi all’osservazione in carcere.
La psicopatia invece si ritiene potrebbe forse essere correlata a differenze fisiologiche nel cervello: alcune ricerche hanno mostrato, infatti, che gli psicopatici hanno delle componenti cerebrali “sottosviluppate”, le quali sarebbero responsabili della regolazione dell’emozione e del controllo degli impulsi e alla base delle difficoltà a formare legami di attaccamento stabili.
Gli psicopatici, in generale, hanno difficoltà a instaurare legami d’attaccamento di tipo emotivo con gli altri, ma creano relazioni artificiali, superficiali, pensate affinché ci sia un beneficio per sé stessi. Infatti, le persone sono viste come pedine da usare per raggiungere i propri obiettivi.
Costoro, infine, raramente si sentono colpevoli per il loro comportamento e non importa loro quanto hanno ferito gli altri. D’altro canto, spesso gli psicopatici possono essere visti dagli altri come affascinanti e fidati, come persone che hanno lavori costanti, normali; alcuni hanno famiglie e relazioni d’amore più o meno stabili.
Anche quando cercano di essere ben educati, possono aver individuato un grande guadagno per loro stessi. Quando uno psicopatico assume un comportamento criminale, cerca di farlo in modo da minimizzare il rischio per se stesso, pianificando accuratamente l’attività criminale per assicurarsi che non sarà preso, con piani di riserva pronti per ogni possibilità.
Esiste la convinzione che uno psicopatico possa apparire normale, e persino coinvolgente, ma che ciò sia appunto la “maschera”, la quale nasconde un disturbo mentale. Questo soggetto, affetto da una psicosi latente, gli impedisce di sviluppare un minimo senso di umanità (empatia).
Il comportamento dello psicopatico viene considerato sovrapponibile a quello di un soggetto affetto da afasia semantica, trasposto dal piano del linguaggio a quello del comportamento e delle relazioni sociali: gli psicopatici sono incapaci di afferrare il significato sociale delle loro azioni. L’assenza di sentimenti di colpa, l’incapacità di nutrire amore oggettuale, l’impulsività, la superficialità e l’incapacità di apprendere dall’esperienza sono tratti che vanno a definire anche uno psicopatico non delinquente.
In letteratura, da Blair, Leibenluft e Pine, viene affrontato il tema dei tratti definiti “callous unemotional”, che potremmo tradurre come “insensibile-anaffettivo”, e delle relazioni che questi tratti hanno con i disturbi della condotta; questi sembrano evidenziare una sorta di continuità e progressione cronologica dei problemi comportamentali, dal disturbo da iperattività e deficit dell’attenzione (ADHD), al disturbo oppositivo provocatorio (OPD), fino a un vero e proprio disturbo della condotta (DC) in età adolescenziale.
Tra questi, quelli che di base presentano tratti callous- unemotional sono quasi il 50% dei casi che poi svilupperanno da adulti un disturbo antisociale di personalità (ASPD). I tratti di insensibilità emotiva sono sostanzialmente stabili nell’individuo, specie se insorgono precocemente, e sembrano assai correlati al patrimonio genetico-biologico.
I pazienti con deficit di decision making apprendono con difficoltà come compiere decisioni che possono portare a ricompense piuttosto che punizioni. Ciò li rende più propensi a compiere condotte impulsive, o di aggressività reattiva, e a provare frustrazione. I sistemi neurobiologici coinvolti in questo caso sono lo striato, i nuclei della base, e la corteccia prefrontale ventromediale.
Nel 1941 Cleckley scrisse la prima edizione di The Mask Of Sanity (la cui quinta edizione uscì nel 1976), nel quale cercò di definire le caratteristiche centrali del disturbo. Descrisse dettagliatamente ciò che credeva fossero i 16 tratti distintivi del disturbo: falsità e fascino superficiale, assenza di illusioni e altri segni di pensiero irrazionale, assenza di nervosismo o manifestazioni psiconevrotiche, scarsa affidabilità e bugia patologica, mancanza di colpa e rimorso, comportamenti antisociali inadeguatamente giustificati, scarsità di giudizio e incapacità di imparare dall’esperienza, egocentrismo patologico e incapacità di amare, povertà generale nelle maggiori reazioni affettive, specifica perdita di introspezione, mancanza di responsività nelle relazioni interpersonali, comportamento sgradevole e fantastico sotto l’effetto di alcolici e a volte senza, suicidio poco frequente, vita sessuale impersonale, banale e scarsamente integrata, fallimento nel seguire i piani di vita. Secondo l’autore, il comportamento antisociale di questi soggetti nasceva dalla generale povertà di reazioni affettive e comparò questa “anormalità” all’afasia semantica, cioè un disordine semantico profondo nel quale le componenti semantiche ed affettive del linguaggio sono separate.
Questo avrebbe spiegato perché gli psicopatici dicono una cosa ma ne fanno un’altra. Un altro aspetto che sottolineò fu il fatto che non è vero che gli psicopatici non esperiscono emozioni, ma quelle che esperiscono differiscono da quelle che provano i non psicopatici, nel genere, nel grado, nella durata e nel modo.
Inoltre, affermò che individui con personalità psicopatica si ritrovano non solo nella popolazione carceraria, bensì anche tra la popolazione civile e di elevato status sociale, come uomini d’affari di successo, scienziati, fisici, psichiatri.
I soggetti psicopatici, quindi, non sono solamente criminali, ma esistono alcuni individui con un nucleo psicopatologico attivo che, tuttavia, sono in grado di funzionare in maniera adattiva nella società senza violare palesemente la legge.
Il disagio psichico è una condizione umana per cui l’individuo prova sentimenti di vergogna, colpa, inutilità e repulsione verso sé stesso. Condizione umana che non dipende dalla sua volontà ma per cui viene giudicato e criticato da una società che vive di pregiudizi nei confronti del diverso.
A tal proposito vanno intesi i tentativi di terapia proposti per il disturbo antisociale di personalità.
Colui che soffre di un disturbo antisociale di personalità generalmente non richiede le cure psichiatriche in quanto non ha coscienza del suo disagio e di avere una qualche malattia. Generalmente queste persone accedono ai trattamenti psichiatrici come conseguenza di problemi con la legge, perché in questo modo cercano di migliorare la loro posizione legale usando la malattia.
Trattamenti per i disturbi antisociali di personalità
Allo stato attuale per il disturbo antisociale di personalità la terapia sulla carta più efficace è il ricovero in strutture specializzate per la cura di questo disturbo, come le ATSM (nelle poche sedi dove esistono e funzionano), cioè le articolazioni per la tutela della salute mentale all’interno degli istituti penitenziari, e sulla carta le ancor più idonee comunità ad hoc, strutture che accolgono questa particolare tipologia di soggetti.
Queste ultime, purtroppo quasi inesistenti, devono essere organizzate e strutturate con regole ferree, dove gli operatori devono essere super specializzati nella gestione di questi quadri clinici, in particolare non devono mai mostrare elementi di ambiguità sia nelle relazioni sia nelle regole proposte: proprio nella non corretta definizione del setting sia organizzativo sia interpersonale sta il vulnus degli interventi.
Regole chiare, precise, mantenute con fermezza, associate a modalità tendenti alla relazione accogliente e genuinamente empatica (niente simpatia, seduttività e/o collusioni, per carità!) possono essere forse la sola carta utile per cercare di instaurare una relazione con gli antisociali. Poi, la terapia cognitivo comportamentale lavorando sugli stati emotivi e sui comportamenti può agire sulla ristrutturazione delle distorsioni cognitive specifiche dell’individuo con disturbo antisociale di personalità.
I soggetti che soffrono di tale disturbo presentano frequentemente degli errori di ragionamento quali le giustificazioni, l’infallibilità personale, i sentimenti fanno i fatti, l’impotenza degli altri e così via di seguito.
Nelle fasi avanzate del trattamento il lavoro clinico-terapeutico va direzionato nell’individuare quelle situazioni di vita che possono scatenare nel paziente un comportamento antisociale con errori di ragionamento, promuovendo lo sviluppo di strategie di coping in grado di fronteggiare in modo diverso le situazioni critiche.
Crediamo che in tali campi di azione la sempre ventilata equipe terapeutica debba necessariamente essere una vera integrazione tra i diversi operatori, ognuno con la sua competenza e formazione, ma tutti accomunati dentro una sola mente pensante univoca, stabile e costante, anche se mai rigida.
Fondamentale un triplice livello coordinato d’intervento: uno psichiatra con una terapia psico-farmacologica, da personalizzare caso per caso, che permetta di abbassare i livelli di aggressività che si vengono a creare e di poter lavorare sia a livello psicologico, con lo psicoterapeuta di formazione cognitivo-comportamentale, sia con il tecnico della riabilitazione psichiatrica, con le attività riabilitative strutturate di tipo occupazionale, espressivo e risocializzante.
Per dirla con linguaggio psicoanalitico, bisogna proporre all’altro con relazione nuova, con un oggetto/soggetto stabile, costante, sano, empatico e in una parola in grado di resettare di file con una nuova esperienza ristrutturante e trasformativa, che possa gradualmente modificare e sostituire le esperienze maladattive del passato dell’antisociale. Solo così di avrà modo di incidere in profondità.
È un lavoro duro e con poche immediate soddisfazioni e molte frustrazioni, adatto solo a chi sa leggere e gestire il proprio contro transfert, in una logica di campo e di setting che permettano riformulazioni utili più che precise interpretazioni che non potrebbero essere integrate senza un adeguato insight. Neanche a dirlo, riteniamo anche indispensabile il supporto di una supervisione precisa e puntuale.
Per chiudere, vogliamo usare le parole di Giovanni Stanghellini (in L’amore che cura):
“La parola clinica deriva dal greco clino che significa chinarsi, e testimonia del fatto che la clinica nasce dal piegarsi di colui che cura sulla persona sofferente, che si immagina a sua volta piegata dal suo dolore. Piegare è anche l’atto che fa della clinica una cura. È il gesto che ci mantiene vivi mettendoci in contatto l’uno con l’altro”.
Autore: ALBERTO SBARDELLA, Psichiatra – DSM ASL Roma 2, Direttore ff UOC Salute Mentale Penitenziaria e Psichiatria Forense – Polo P. Rebibbia
Bibliografia
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- Stanghellini G. L’amore che cura; Milano: Feltrinelli, 2018.